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Podcast

Aumenta il rischio dei cyber-attacchi

Secondo un report dell’ENISA il fenomeno dei cyber-attacchi ransomware è in crescita. Tutti sono a rischio, ma si può ridurre la minaccia. Ne parla Giulio Coraggio nel podcast Dirottare il Futuro di Panorama.it disponibile qui.

Alessandro Fiumara, MD di Lottomatica Digital & Betting, sul futuro del gambling

In questo episodio di Diritto al Digitale, Alessandro Fiumara di Lottomatica illustra a Giulio Coraggio la sua visione sul futuro del gambling, quello che è successo finora e cosa aspettarci. Potete vedere l’episodio qui.

Privacy

Google Analytics: il Garante conferma il divieto all’utilizzo per trasferimento illecito di dati

Il Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato un provvedimento emesso nei confronti di un operatore di telefonia con il quale l’Autorità ha confermato che l’utilizzo di Google Analytics 360 comporta un illecito trasferimento dei dati personali verso gli Stati Uniti.

Il ragionamento seguito dall’Autorità parte dalla (ennesima) conferma che l’indirizzo IP costituisce un dato personale, nella misura in cui consenta di individuare un dispositivo di comunicazione elettronica, rendendo in tal modo indirettamente identificabile l’utente. Ciò contrariamente a quanto obiettato dall’operatore, che evidenziava come l’indirizzo IP non permetterebbe l’identificazione di un singolo utente, bensì di una moltitudine di utenti che hanno navigato in rete nell’ambito di una singola sessione di navigazione.

Fatta questa premessa, il Garante evidenzia come l’attivazione dell’“IP-Anonymization” – misura messa a disposizione da Google per minimizzare i rischi connessi al trattamento dei dati e puntualmente implementata dall’operatore – non impedisca a Google LLC di identificare comunque un utente. Tale identificazione può avvenire in modo diretto, se l’utente ha fatto accesso al proprio account Google, o in maniera indiretta, tramite l’indirizzo IP o per mezzo della re-identificazione effettuata sulla base dell’indirizzo IP pseudonimizzato (grazie all’“IP-Anonymization”) in combinazione con le altre informazioni in possesso di Google.

Pertanto, il trasferimento di dati personali operato dall’operatore verso Google LLC, per il tramite di Google Ireland, deve avvenire nel rispetto del GDPR e solo previa adozione di adeguate misure supplementari che impediscano l’accesso ai dati personali da parte delle Autorità statunitensi e di altri soggetti non autorizzati.Nel caso di specie, il Garante ha ritenuto che l’“IP-Anonymization” e le ulteriori misure adottate da Fastweb e Google non fossero sufficienti a rendere lecito il trasferimento.

A nulla è valsa l’obiezione dell’operatore, secondo cui la possibilità di accesso ai dati da parte delle Autorità statunitensi rappresenterebbe “un evento probabilistico di realizzazione del tutto incerta e statisticamente trascurabile”, posto che i dati trattati da Google non possono considerarsi “utili e di interesse per la sorveglianza da parte dell’intelligence USA” in quanto l’“obiettivo di sorveglianza preposto dalla Sezione 702 (..) è limitato alle sole informazioni di intelligence straniera”. A queste osservazioni il Garante ha replicato che la valutazione sul trasferimento dei dati (c.d. “Transfer Impact Assessment”) deve basarsi su fattori oggettivi, indipendentemente dalla probabilità di accesso ai dati personali, e che l’indirizzo IP è ricompreso tra le informazioni d’interesse per le Autorità statunitensi ai sensi del FISA 702, unitamente ad altri metadata.

Infine, l’Autorità evidenzia come le misure di crittografia – in transit e at rest – implementate da Google appaiano insufficienti, in quanto la disponibilità della chiave di cifratura resta pur sempre in capo a Google LLC, che potrebbe essere tenuta a metterla a disposizione delle Autorità americane. Tali circostanze non consentono di considerare lecito il trasferimento dei dati eseguito nell’utilizzo di Google Analytics, nonostante l’adozione da parte di Google di alcune importanti misure contrattuali e organizzative.

Pertanto, l’Autorità ha dichiarato l’illiceità del trattamento dei dati personali degli utenti del sito di Fastweb, posto in essere per il tramite di Google Analytics, ingiungendo alla società di adottare entro 90 giorni misure supplementari adeguate – che allo stato non sembrano essere disponibili sul mercato – o interrompendo il trasferimento verso Google LLC, vale a dire cessando l’utilizzo di Google Analytics 360.

Rispetto a questo provvedimento solleva ancora perplessità la posizione del Garante che non tiene conto del rischio effettivo di un accesso da parte delle autorità americane ai dati, prendendo una posizione che si discosta da quanto rappresentato dalla Commissione europea nelle nuove Clausole Contrattuali Standard. In tale contesto, diventa ancora più utile eseguire una valutazione del trasferimento con strumenti come la metodologia adottata da DLA Piper che è descritta nella presentazione disponibile qui.

Intellectual Property

Copyright levies: la CGUE sull’organo nazionale responsabile per le esenzioni e i rimborsi per il compenso per copia privata

Nella sentenza nella causa C-263/21 la Corte di Giustizia dell’Unione europea (“CGUE”) si è pronunciata sulla normativa spagnola che stabilisce la composizione e i poteri dell’organo responsabile per il riconoscimento delle esenzioni dal pagamento e dei rimborsi dell’equo compenso per “copia privata”.

La Corte Suprema Spagnola ha sottoposto al vaglio della CGUE due questioni pregiudiziali fondate sull’interpretazione dell’art. 5(2)(b) della Direttiva 2001/29/CE (“Direttiva Infosoc”), che prevede che gli Stati Membri abbiano la facoltà di prevedere eccezioni e limitazioni al diritto di riproduzione delle opere protette da diritto d’autore (art. 2 della Direttiva Infosoc) per le riproduzioni su qualsiasi supporto di tali opere per usi privati e per fini né direttamente, né indirettamente commerciali. L’eccezione “per copia privata” può essere riconosciuta a condizione che i titolari dei diritti sull’opera riprodotta ricevano un equo compenso per tale utilizzo. Generalmente, gli Stati Membri che hanno introdotto una disciplina per il compenso per copia privata hanno posto tale onere a carico dei soggetti che fabbricano, distribuiscono o importano la strumentazione utilizzata per le riproduzioni per usi privati, dal momento che gli utilizzatori finali sono spesso difficilmente individuabili. Inoltre, molte normative nazionali, come nel caso della Spagna, prevedono meccanismi di richieste ad un organo nazionale per esenzioni e rimborsi per quei soggetti che non sono tenuti al versamento del compenso.

La CGUE è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con la Direttiva Infosoc e con il principio della parità di trattamento della normativa spagnola che prevede che l’organo responsabile per il riconoscimento di esenzioni e rimborsi del compenso per copia privata sia costituito e amministrato dagli organismi di gestione dei diritti di proprietà intellettuale o se questo comporti uno “squilibrio” o un’“asimmetria” nel bilanciamento degli interessi dei titolari dei diritti e dei soggetti che richiedano di essere esentati o rimborsati di quanto versato. La Corte Suprema Spagnola ha anche richiesto una pronuncia della CGUE sulla legittimità della facoltà riconosciuta a tale organo di poter esigere informazioni contabili da soggetti che abbiano richiesto esenzioni dall’obbligo di pagamento del compenso per copia privata.

Quanto alla prima questione pregiudiziale, la CGUE ha rilevato che il diritto ai rimborsi per quanto versato a titolo di compenso per copia privata che viene riconosciuto a favore di persone diverse da quelle fisiche che acquistano apparecchi per la riproduzione per fini manifestamente estranei a quello della realizzazione di copie private deve essere effettivo e non deve rendere eccessivamente difficile la restituzione di quanto pagato. La portata, l’efficacia, la disponibilità, la pubblicità e la semplicità dell’esercizio del diritto ai rimborsi devono controbilanciare eventuali squilibri determinati dal sistema del compenso per copia privata. Tali principi devono essere applicati anche al riconoscimento dei certificati di esenzioni, qualora previsto dalla normativa al fine di garantire che solo coloro che effettivamente devono corrispondere il compenso di cui all’art. 5(2)(b) della Direttiva Infosoc sostengano tale onere.

Nel caso di specie, la normativa spagnola (ossia gli articoli 10 e 11 del regio decreto spagnolo n. 1398/2018) prevede l’obbligo per la persona giuridica responsabile dell’esame delle domande di concedere entro specifici termini i certificati di esenzioni o di accertare l’esistenza del diritto ai rimborsi qualora vengano fornite le informazioni di identificazione richieste e vengano sottoscritte le necessarie dichiarazioni. La stessa normativa prevede che possa essere presentato davanti ad un’entità indipendente, ossia il Ministero della Cultura e dello Sport, ricorso contro le decisioni dell’organo responsabile della riscossione del compenso per copia privata qualora le domande di esenzioni o rimborsi siano rigettate con adeguata motivazione. Secondo la CGUE tali disposizioni sono compatibili con la Direttiva Infosoc, oltre che con il principio di parità di trattamento, e ne rispettano i requisiti, circostanza che, in ogni caso, dovrà essere verificata dal giudice del rinvio.

In merito alla seconda questione pregiudiziale, la CGUE ha rilevato che nell’ambito di un sistema in cui gli importi da riscuotere ai fini del compenso per copia privata e le relative esenzioni sono determinati dalle dichiarazioni unilaterali degli operatori, l’organo incaricato della gestione di tali compensi deve essere autorizzato a controllare quanto viene dichiarato, dal momento che tale facoltà è condizione necessaria per garantire una riscossione effettiva del compenso. Inoltre, se nell’ambito delle verifiche sui requisiti per le esenzioni risulta che l’ente richiedente non le soddisfa, l’organo responsabile per la riscossione deve avere le possibilità di calcolare e riscuotere il compenso dovuto. La riscossione effettiva del compenso per copia privata non può essere soddisfatta se la persona giuridica, che deve pagare o che non è più esentata, può negare l’accesso alle proprie informazioni contabili, evocando il segreto delle scritture contabili previsto a livello nazionale.

Secondo la CGUE la normativa spagnola (nella fattispecie l’art. 12 del regio decreto spagnolo n. 1398/2018) è sufficientemente tutelante, dal momento che prevede che gli organismi di gestione e l’organo responsabile del sistema del compenso per copia privata devono rispettare il carattere riservato di tutte le informazioni di cui vengono a conoscenza, il cui trattamento è comunque soggetto alle norme per la tutela della concorrenza e della protezione dei dati.

In conclusione, la CGUE ha sancito che le disposizioni della Direttiva Infosoc, in particolare l’art. 5(2)(b), non impediscono che la normativa nazionale preveda che la gestione delle esenzioni e dei rimborsi del compenso per copia privata sia affidata ad una persona giuridica costituita e controllata dagli organismi di gestione dei diritti di proprietà intellettuale. Tale normativa deve in ogni caso stabilire che i certificati di esenzioni e i rimborsi siano concessi in tempi utili e con l’applicazione di criteri oggettivi e che, quindi, sia impedito il rigetto per motivi discrezionali. Deve, inoltre, essere prevista la possibilità di ricorso avverso la decisione di rigetto davanti ad un organo indipendente.

Inoltre, secondo la CGUE la normativa nazionale sul compenso per copia privata può prevedere che l’organismo responsabile della gestione delle esenzioni dal pagamento e dei rimborsi possa richiedere di avere accesso alle informazioni necessarie per esercitare le proprie competenze di controllo, senza che l’ente a cui tali informazioni appartengono possa opporre il segreto della contabilità commerciale previsto a livello nazionale, sempre che tale organo sia vincolato dall’obbligo di rispettare il carattere riservato delle informazioni fornite.

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L’ultima tendenza dei marchi di moda: i loghi sostenibili

Le case di moda investono sul re-branding introducendo nuovi marchi e loghi sostenibili da apporre sui propri prodotti.

L’industria della moda è tristemente nota per essere una delle industrie più inquinanti al mondo, essendo responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di gas serra. Sono diversi i fattori che contribuiscono a questo risultato non certo positivo, tra cui l’esaurimento delle risorse idriche, l’inquinamento delle fabbriche tessili e i rifiuti delle merci. Negli ultimi anni, però, a grande richiesta del pubblico i marchi della moda si sono impegnati in progetti di re-branding per apporre sui loro prodotti loghi sostenibili.

Sono proprio i giovani consumatori che hanno iniziato a dare priorità al tema della sostenibilità anche nelle loro decisioni di acquisto. Infatti, il 74% dei millennial e il 62% della generazione Z preferiscono acquistare da brands attenti all’ambiente e sono quindi disposti a pagare di più per prodotti sostenibili. Pertanto, la domanda dei consumatori ha provocato ua notevole interesse verso la sostenibilità dei marchi della moda e dell’abbigliamento ed è proprio per questo motivo che la “moda sostenibile” e la trasparenza relativamente a questi sforzi hanno acquisito un’importanza crescente.

Per soddisfare le richieste dei consumatori nel fare scelte di acquisto più consapevoli, molti marchi si sono impegnati a creare prodotti in edizione limitata, capsule collection o addirittura intere linee sostenibili, cioè realizzate con materiali di provenienza etica o riciclati. L’aumento della consapevolezza dei consumatori e degli investitori sugli elementi ambientali, sociali e di governance (“ESG“) delle aziende sta contribuendo a far crescere il mercato della sostenibilità che, secondo KMPG, dovrebbe raggiungere i 150 miliardi di dollari entro il 2021, con la moda che gioca un ruolo importante, in quanto la sostenibilità continua a essere “un pilastro fondamentale per la crescita delle imprese”, indipendentemente dal settore.

Poiché i consumatori – e il mercato – chiedono sempre più trasparenza e sostenibilità all’industria della moda, diverse aziende hanno adottato nuove tecniche per posizionare se stesse e i loro prodotti come “sostenibili”. Tra gli altri fattori, è interessante capire come le imprese stiano investendo nel re-branding o nell’introduzione di nuovi marchi, apponendo sui loro prodotti loghi incentrati sulla sostenibilità, in modo che i consumatori siano consapevoli dell’origine e della natura dei prodotti in gioco.

Diversi marchi della moda hanno scelto di adottare anche nuovi loghi per dimostrare il loro impegno a diventare più sostenibili. I loghi, come i marchi, identificano l’origine dei prodotti, ma trasmettono anche i valori del brand, ossia le missioni, le emozioni e gli scopi che rappresenta. Per questo motivo, i marchi sono particolarmente efficaci per comunicare il passaggio del brand alla sostenibilità.

Ad esempio, nell’ambito della collezione uomo SS 2021, Louis Vuitton ha adottato – presentando domanda di registrazione – il logo Upcycling Signal. Il segno consiste nel ridisegnare il monogramma “LV” in modo che assomigli alle frecce attorcigliate del logo recycle, per i prodotti che sono upcycled o che contengono almeno il 50% di materiali riciclati e di origine biologica. Virgil Abloh ha utilizzato la versione “sostenibile” del monogramma per lanciare un paio di sneaker completamente bianche realizzate in ecopelle a base di mais e poliestere riciclato, con almeno il 90% del prodotto proveniente da materiali riciclati o di origine biologica.

Louis Vuitton non è l’unico marchio di lusso a puntare su re-branding sostenibili. Infatti, diversi altri marchi di moda hanno creato una versione “green” dei loro loghi. A partire da novembre 2021, in relazione a una collaborazione con il marchio di streetwear Palm Angels, Moncler ha utilizzato una versione ridisegnata del suo logo per indicare i prodotti realizzati “con tessuti realizzati con materiali a basso impatto come Econyl®, un nylon rigenerato derivato da rifiuti oceanici e terrestri – cotone organico e poliestere riciclato, mentre i bottoni e le cerniere sono realizzati con metallo e ottone riciclati“. In particolare, il logo “sostenibile” consisteva in una versione ridisegnata della “M” di Moncler come un ciclo infinito di frecce che ricorda il simbolo del riciclo.

Anche Prada nel 2019 ha adottato – presentando domanda di registrazione – un marchio “green” da utilizzare in relazione a una collezione in nylon riciclato e riciclabile (Econyl), che è un materiale proprietario ricavato dall’upcycling di rifiuti di nylon industriali come tappeti o reti da pesca. Il marchio è composto dalle parole Prada e Re-Nylon con l’iconico triangolo di Prada formato da frecce, che ricorda anch’esso il simbolo del riciclo.

Infine, anche Valentino, nel gennaio 2022, ha presentato le sneakers “Open for a Change” come parte della collezione Primavera/Estate 2022 che “sono ridisegnate e ridedicate in uno spirito di innovazione aperta con un’etica più consapevole“. In particolare, le sneakers sono ornate da loghi sostenibili, ridisegnando l’iconica “V” al centro, circondata da due frecce verdi, che ricordano il logo del riciclo.

Tuttavia, mentre la decisione di alcuni marchi della moda di utilizzare loghi sostenibili, cercando di comunicare elementi di sostenibilità o ESG, può essere efficace dal punto di vista reputazionale e commerciale, i marchi dovrebbero essere consapevoli del fatto che le autorità di regolamentazione stanno prestando molta più attenzione a questo tema, essendoci disposizioni rigide da seguire.

L’articolo 21, comma 2, del Codice della Proprietà Intellettuale italiano (“CPI“) stabilisce il divieto di utilizzare il marchio in modo tale da indurre in errore il pubblico sulla “natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato“. Questo divieto si riferisce all’ingannevolezza dei messaggi che il marchio veicola interagendo con il contesto pubblicitario, l’imballaggio e l’etichettatura dei prodotti. Pertanto, ciò che è ingannevole è il significato “indiretto”, cioè il messaggio che il marchio assume in relazione al contesto in cui viene utilizzato. Questo può essere il caso di un marchio che viene collegato nella percezione del pubblico a una certa fonte di produzione (pur non comunicando di per sé alcuna informazione sull’origine), ma che in realtà assume un significato preciso legato all’origine dei prodotti. Infatti, se un brand decide di registrare un marchio “green” in relazione a una collezione asseritamente sostenibile, ma senza che la collezione sia effettivamente ispirata a questi principi, ai sensi degli articoli 14, paragrafo 2, lettera a), e 26, lettera b), del CPI, tale marchio può essere revocato.

A questo proposito, è rilevante la sentenza della Corte di Cassazione n. 6234/2009 sul marchio ”BIO-ENE”, che caratterizzava una gamma di prodotti a base vegetale. La Suprema Corte ha ritenuto che il marchio ”BIO-ENE” fosse idoneo a trarre in inganno il consumatore finale perché “le indicazioni contenute nel marchio, a causa della ‘forte portata semantica ed evocativa’ del termine ‘bio’, inducevano il consumatore di media diligenza a credere, nonostante l’associazione con il termine ‘ene’ e con il simbolo grafico, che i prodotti caratterizzati da quel marchio fossero prodotti con metodo biologico, non già semplicemente di ispirazione vegetariana, quali in effetti erano’”.

In conclusione, le imprese dovrebbero tenere a mente di prestare attenzione quando decidono di adottare loghi riferibili alla sostenibilità. Infatti, per evitare danni reputazionali o contraccolpi, i brands devono essere trasparenti, cercando di non enfatizzare l’impegno ecologico soprattutto quando questo è totalmente assente.

Su un simile argomento può essere interessante l’articolo: “Come i fashion brand possono promuovere la sostenibilità e proteggere il loro marchio”.

Not Just a Label lancia una piattaforma per i diritti di proprietà intellettuale: sarà il futuro nella cessione dei diritti dei designer?

Nel 2023 Not Just a Label, piattaforma-community che conta oltre 50mila designer indipendenti lancerà la prima piattaforma per i diritti di proprietà intellettuale nel settore fashion e luxury. Ciò rappresenterà indubbiamente una tutela per i giovani designer e una fonte di ispirazione per i grandi brand.

Le mode mutano, si trasformano, a volte si reinventano, ma soprattutto seguono le stagioni. Per fare in modo che questo sia possibile, è necessario che dietro vi sia un’industria che lavori incessantemente, che sia innovativa e ascolti le percezioni dei consumatori, che osservi, studi, ricerchi e si metta in discussione. Si richiede, paradossalmente, che in un settore come quello della moda, legato alla stagionalità, l’industria che la sorregga sia proprio “a-stagionale”, pronta a giocare d’anticipo e a non fermarsi mai. E queste sfide sono demandate anche al diritto che regola la moda, cui è richiesto di trovare soluzioni al passo con i tempi e volte a soddisfare le esigenze degli operatori del mercato e dei consumatori.

Negli anni, l’industria della moda si è mostrata sempre più attenta alla sostenibilità, alla trasparenza della filiera produttiva, alle condizioni dei lavoratori e anche alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale, portando le aziende ad investire in scelte che riflettessero a pieno la volontà di percorrere queste strade. Questo ha fatto sì che il divario tra i colossi del fast fashion e i designer indipendenti diventasse sempre più marcato, facendo apprezzare questi ultimi da una porzione sempre più consistente di pubblico, ma anche esponendoli ai rischi maggiori legati alla violazione dei loro diritti IP. Infatti, da un punto di vista giuridico se, da un lato, il tema relativo alla tutela dei diritti IP dei fashion designer è da sempre controverso, dall’altro lato esso non cessa mai di essere attuale, per cui non solo è importante discuterne, ma anche elaborare prospettive future.

Il primo tema legale da affrontare è quello relativo alla proteggibilità delle creazioni della moda, quali i capi di abbigliamento e gli accessori. Esse possono trovare tutela, in primo luogo, ai sensi della legge sul diritto d’autore e, in particolare, ai sensi dell’articolo 2 n. 10 l.d.a., che annovera tra le opere protette quelle del disegno industriale che presentino carattere creativo e valore artistico. La previsione di tali requisiti, che rappresenta sicuramente una barriera ulteriore per accedere alla tutela autoriale è giustificata dalla destinazione seriale dei prodotti in questione. E se, da un lato, per quanto concerne il requisito del carattere creativo si ritiene sufficiente provare che l’autore abbia fornito un apporto individuale nella creazione dell’opera che esprima la sua personalità, dall’altro, il requisito del valore artistico è aspramente dibattuto. In primo luogo, è opportuno rammentare che tale quid pluris non è previsto in maniera armonizzata, bensì soltanto in alcuni stati, tra cui l’Italia, come dimostrato anche dalla celebre pronuncia Cofemel del 2019 della Corte di giustizia europea (C-683/17 – Cofemel – Sociedade de Vestuário SA).

Pertanto, rifacendosi all’opinione condivisa dalla nostra giurisprudenza, si ritiene che tale requisito sussista laddove vi siano degli indici oggettivi, quali il riconoscimento da parte di ambienti culturali e istituzionali del prodotto, la dimostrazione della sussistenza di qualità estetiche ed artistiche dimostrate dall’esposizione in mostre, musei o attraverso la pubblicazione su riviste specializzate, l’attribuzione di premi e così via. Tuttavia, è particolarmente insidioso per le creazioni della moda accedere alla protezione come opere protette dal diritto d’autore e, laddove ipotizzabile, forse più plausibile nei confronti delle creazioni delle grandi maison, rispetto al caso dei designer emergenti e indipendenti.

Uno strumento più efficace per tutelare le creazioni della moda è quello della registrazione come disegni o modelli. Per godere di tale tutela, che dura cinque anni dalla data di registrazione ed è rinnovabile per un numero massimo di cinque volte, è sufficiente provare che i prodotti siano dotati di novità e di carattere individuale. È altresì prevista una protezione più esigua, di tre anni dalla data di divulgazione del prodotto al pubblico per la prima volta, accordata ai disegni e ai modelli non registrati che siano nuovi e abbiano carattere individuale. Tuttavia, la data di divulgazione, così come la prova della contraffazione, non sono sempre elementi facilmente dimostrabili.

A questi strumenti, si affianca quello che qui verrà trattato solo marginalmente, ossia quello della tutela del marchio, che pare poco applicabile ai nuovi prodotti di designer emergenti. Infine, ad essere spesso invocate dai creatori del gusto e della moda sono le norme in materia di concorrenza sleale e in particolare relative alle ipotesi di imitazione servile della forma e dello stile del prodotto, di condotta di appropriazione di pregi e di concorrenza sleale parassitaria.

Esaurito il tema relativo alla proteggibilità delle creazioni di moda e ai diritti di proprietà intellettuale che sorgono in capo ai creatori, pare opportuno fare un accenno al tema della cessione dei diritti da parte dei designer, altresì controverso. Infatti, in un settore come quello del fashion and luxury, dove la violazione dei diritti di proprietà intellettuale è all’ordine del giorno, si è sempre alla ricerca di forme contrattuali più snelle, rispetto a quelle “standard” quali i contratti di cessione dei diritti d’autore o i contratti di licenza di marchio o design. In tal senso, è senza dubbio da segnalare l’idea elaborata da Stefan Siegel, fondatore di “Not Just a Label”, una piattaforma fondata nel 2008 e dedicata ai designer emergenti e indipendenti. Essa mette in contatto con questi ultimi, da un lato, con i clienti diretti (piattaforma b2c) e, dall’altro, con aziende interessate ai loro prodotti (piattaforma b2b); tuttavia, la novità più grande di “Not Just a Label” è senza dubbio quella relativa al lancio di un marketplace dei diritti di proprietà intellettuale che la piattaforma implementerà a partire dal 2023 e, in virtù del quale, ha avviato un fundraising da 10 milioni. Attraverso tale sistema, le aziende potranno acquistare i diritti di proprietà intellettuale dai designer per riprodurre i loro articoli, garantendo a questi ultimi un flusso di reddito anonimo. Sicuramente sarà un precedente importante che, al pari della tecnologia blockchain, porterà a garantire ulteriormente l’autenticità dei prodotti “Made in Italy”. Quest’ultima, infatti, attraverso registri decentralizzati, modificabili da più persone in momenti diversi, immutabili e tracciabili, consente di monitorare realmente la storia del prodotto e preservarne l’unicità.

In conclusione, pertanto, possiamo solo ribadire l’importanza di tutelare i diritti di proprietà intellettuale nel settore fashion & luxury, come dimostra l’iniziativa di “Not Just a Label”. Infatti, investire in proprietà intellettuale non significa altro che investire nel proprio brand.

Su un simile argomento può essere interessante l’articolo: L’ultima tendenza dei marchi di moda: i loghi sostenibili.

Continua il boom dello sportswear: brevetto e tecnologia tessile

Con il boom dello sportswear ci sono opportunità per sviluppare nuove forme di tecnologia tessile e registrarle come brevetto.

Con un numero sempre crescente di persone che si impegnano ad avere uno stile di via più sano e attivo, l’industria dello sportswear e del cd. atleisure, ossia l’abbigliamento sportivo utilizzato nella vita di tutti i giorni, sta vivendo un momento di grande espansione. In questo contesto, stanno aumentando le collaborazioni tra brand e aziende biotech finalizzate a creare nuove forme di tecnologia tessile e registrarle come brevetto, atteso che queste ultime hanno un ruolo chiave nel successo dei capi.

Le ragioni alla base della tendenza a prediligere una vita sana, ormai diffusissima quantomeno nel mondo occidentale, sono molteplici, complesse e interconnesse. Se da un lato la pandemia ha giocato indubbiamente un ruolo chiave nel ridisegnare le priorità delle

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