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27 marzo 20249 minuti di lettura

La riforma del codice della proprietà industriale: nuove opportunità per il technology transfer in ambito Life Sciences

Il technology transfer, ossia le attività che sono finalizzate al trasferimento delle conoscenze dalla ricerca scientifica ai settori produttivi e industriali, è un elemento essenziale dei procedimenti di sfruttamento dell’innovazione. La presenza di un corretto sistema di incentivi alla ricerca rende infatti possibile un più significativo utilizzo commerciale dei risultati delle attività di ricerca e sviluppo.

Un esempio virtuoso è rappresentato dagli Stati Uniti, dove dagli anni 80’ del secolo scorso è stato introdotto il c.d. Bayh-Dole Act, che ha trasferito alle università e alle imprese finanziatrici della ricerca il controllo dello sfruttamento economico delle invenzioni che derivano dalla ricerca finanziata dai privati. Negli Stati Uniti è, dunque, possibile concedere a soggetti strutturalmente organizzati i diritti di sfruttamento delle innovazioni nate in ambito universitario, facilitandosi così l’osmosi fra mondo della ricerca e mondo produttivo.

Proprio grazie al Bayh-Dole Act gli Stati Uniti hanno creato il più efficiente sistema al mondo di technology transfer: si stima che il contributo del trasferimento tecnologico al prodotto interno lordo statunitense nel ventennio 1997-2017 sia stato di quasi 900 miliardi di dollari, con oltre 6 milioni di posti di lavoro generati. Se si ferma l’attenzione al settore Life Sciences, nel medesimo periodo moltissimi vaccini e nuovi farmaci sono stati creati negli Stati Uniti grazie al technology transfer e a sistemi di partnership tra settore pubblico e privato.

In Italia (e in altri Paesi europei) la situazione non è altrettanto rosea.

L’Italia è un Paese in cui è presente un eccellente sistema di ricerca di base in molti settori, specialmente in ambito Life Sciences. Per esempio, l’Italia è fra i primi Paesi per numero di pubblicazioni scientifiche di qualità, collocandosi al settimo posto delle classifiche (all’ottavo per numero di articoli più citati), secondo il rapporto “Dynamics of scientific production in the world” edito da Hcéres, l’alto organismo francese per la valutazione della ricerca e dell’educazione superiore. Allo stesso modo, l’Italia si conferma un Paese a vocazione industriale con forte propensione all’innovazione tecnologica, classificandosi all’undicesimo posto al mondo nella graduatoria per depositi di brevetti nel 2023.

Se si considera il solo settore Life Sciences, sono oltre 600 le nuove start-up nate fra il 2021 e il 2023, con oltre 2 miliardi di Euro di investimenti. L’area di maggiore crescita è quella delle biotecnologie, seguita dal Med Tech, dal Digital Health e dai servizi in ambito Life Sciences . Fra l’altro si tratta di un settore destinato ad intercettare una parte significativa delle risorse italiane del PNNR, con la possibilità di attrarre ulteriori risorse dalla missione 4 del PNRR, dedicata al technology transfer, che ha un plafond di 2.4 miliardi di Euro. Oggi, molto più che in passato, sono dunque disponibili le risorse finanziarie per trasformare il patrimonio nazionale di conoscenze scientifiche e tecniche in valore economico per l’intero Paese e il trasferimento tecnologico è uno strumento efficace per farlo.

E, tuttavia, ad oggi, i numeri “italiani” del technology transfer sono limitati. Secondo i dati pubblicati da una recente ricerca , nel 2018 sono state costituite circa 150 imprese spin-off dalle università e dai centri di ricerca nei cui Technology Transfer Office (TTO) sono attualmente impiegati circa 400 addetti. Siamo, insomma, lontani anni luce dagli Stati Uniti.

Una parte della spiegazione è legata alle regole sulla titolarità dei diritti derivanti datechnology transfell’attività di ricerca in ambito universitario. Fino a poco tempo fa, infatti, in Italia è stato applicato il c.d. “professor privilege”, ossia l’attribuzione ai ricercatori universitari dei diritti di proprietà industriale relativi alle invenzioni brevettabili ottenute nell’ambito dell’attività di ricerca. Secondo una valutazione largamente condivisa, questo impianto normativo ha determinato un ostacolo allo sviluppo di modelli virtuosi di trasferimento tecnologico nel nostro Paese, penalizzando soprattutto settori come quello delle scienze della vita, che avrebbero beneficiato in modo significativo da un ecosistema che avesse favorito il trasferimento tecnologico. Le richieste di riforma di questa normativa sono state numerose.

Bene, forse oggi ci siamo.

Con la legge n. 102/2023 sono, infatti, state introdotte modifiche significative al codice della proprietà industriale (c.p.i.) ed è stato rivoluzionato il regime di titolarità delle invenzioni ottenute nell’ambito di attività di ricerca universitaria, anche grazie all’abrogazione del “professor’s privilege”.

L’attuale formulazione dell’art. 65 c.p.i. riconosce alle università e agli enti di ricerca la titolarità dei diritti relativi alle invenzioni ideate da ricercatori, qualora i trovati siano stati realizzati nell’ambito di un rapporto di lavoro o di impiego, anche a tempo determinato, con l’ateneo. Tra le strutture incluse nell’ambito di applicazione di tale norma sono comprese università, anche non statali, legalmente riconosciute, enti pubblici di ricerca, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) e organismi che svolgono attività di ricerca e promozione di attività tecnico-scientifiche senza scopo di lucro o in convenzione tra i medesimi soggetti. L’art. 65 c.p.i. è, quindi, stato allineato con quanto stabilito – per il settore privato - dall’art. 64 c.p.i., che, a determinate condizioni, riconosce al datore di lavoro i diritti relativi alle invenzioni realizzate da dipendenti nell’ambito di un rapporto di lavoro.

Nell’art. 65 c.p.i. è anche stato introdotto un meccanismo specifico da seguire per il deposito della domanda di brevetto delle invenzioni ottenute dai ricercatori, che sono tenuti a comunicare tempestivamente all’università o all’ente di ricerca l’oggetto dell’invenzione. Entro 6 mesi dalla comunicazione, l’ente deve procedere al deposito della domanda di brevetto o informare l’inventore che non intente procedere. La facoltà per il ricercatore di depositare la richiesta di brevetto a proprio nome è divenuta dunque un’ipotesi residuale. In ogni caso, al ricercatore spettano tutti i diritti morali relativi all’invenzione, incluso il diritto di essere riconosciuto quale inventore.

In relazione alla remunerazione spettante al ricercatore, l’art. 65 c.p.i. demanda alle università, agli enti pubblici di ricerca e agli IRCCS il compito di disciplinare i rapporti con gli inventori e le premialità concesse per l’attività inventiva, oltre che i rapporti con finanziatori di ricerca da cui derivino invenzioni brevettuali. I regolamenti interni delle università e degli enti di ricerca devono anche disciplinare ogni altro aspetto legato alla valorizzazione delle invenzioni, oltre che i rapporti con altri soggetti nelle attività di ricerca, come ad esempio studenti, e con gli eventuali finanziatori della ricerca.

La riforma dell’art. 65 c.p.i. dovrebbe eliminare le difficoltà riscontrate nello sfruttamento delle invenzioni legate al precedente impianto normativo. In molti casi, infatti, il ricercatore titolare dei diritti sul trovato non aveva le possibilità di tutelare e impiegare al meglio le invenzioni derivanti dall’attività di ricerca. Le nuove norme dovrebbero rendere più efficiente e celere il trasferimento delle nuove tecnologie al sistema produttivo. In qualità di titolari dei diritti, le università e gli enti di ricerca potranno infatti approcciarsi ai mercati alla pari delle imprese private, ed investire nelle innovazioni che promettono risultati rilevanti.

Una regolamentazione specifica è stata prevista per la ricerca finanziata da soggetti privati. In particolare, secondo l’art. 65 c.p.i. i diritti sulle invenzioni derivate da attività di ricerca finanziata, totalmente o parzialmente, da soggetti terzi, saranno disciplinati da contratti da redigere sulla base di linee guida predisposte dal Ministero delle imprese e del Made in Italy con il Ministero dell’università e della ricerca (le Linee Guida), adottate con Decreto Interministeriale del 26 settembre 2023.

Le Linee Guida hanno stabilito principi generali e indicazioni volti a indirizzare enti e soggetti finanziatori, focalizzandosi principalmente sulla titolarità dei diritti sui trovati generati dalla ricerca e sullo sfruttamento dei risultati, e altresì sottolineando l’importanza della definizione del regime di riservatezza e confidenzialità a cui devono essere soggette le informazioni derivanti dalla ricerca. In particolare, le Linee Guida hanno individuato tre tipologie di contratti che possono intervenire nel rapporto tra strutture di ricerca e finanziatori, ossia i contratti con attività di servizio, i contratti per l’attività di sviluppo e quelli con attività di ricerca innovativa.

Nell’ambito della collaborazione tra finanziatori e atenei, sono di principale rilevanza gli accordi ricompresi nell’ultima tipologia, caratterizzati da una marcata propensione all’innovazione. I risultati delle attività previste da questi accordi dovrebbero essere brevettabili e l’attribuzione della titolarità dei relativi diritti dovrà essere adeguatamente disciplinata dal contratto. Le Linee Guida propendono per il riconoscimento della titolarità originaria dei diritti all’ente di ricerca, con la previsione del trasferimento dei diritti di sfruttamento economico al soggetto finanziatore per valorizzare al meglio i risultati.

Infine, ai sensi del nuovo art. 65-bis c.p.i. le istituzioni universitarie e dell'alta formazione artistica, musicale e coreutica, gli enti pubblici di ricerca e gli IRCCS possono dotarsi nell’ambito della loro autonomia di un ufficio di trasferimento tecnologico finalizzato alla promozione della valorizzazione dei titoli di proprietà industriale. Questi uffici dovranno essere composti da personale con qualificazione professionale adeguata allo svolgimento dell’attività di valorizzazione dell’innovazione e dovranno interfacciarsi con i rappresentanti del sistema industriale per veicolare in modo efficiente verso le imprese il passaggio di conoscenze e trovati ottenuti tramite la ricerca.

La riforma del regime di titolarità delle invenzioni dei ricercatori è volta a favorire una collaborazione più intensa tra il settore pubblico e quello privato per potenziare al meglio lo sviluppo e lo sfruttamento di nuove tecnologie, anche grazie al technology transfer. È auspicabile che sia l’occasione per un rinnovato interesse rispetto alle ricerche svolte negli atenei e agli obiettivi da conseguire tramite tali attività: le università e le strutture di ricerca avranno maggiore interesse alla determinazione di progetti indirizzati a finalità pratiche e all’ottenimento di risultati innovativi. Se adeguatamente tutelati, tali risultati potranno essere efficacemente implementati e impiegati in ambiti industriali.

Migliorando il flusso dei diritti dalle strutture di ricerca ai settori imprenditoriali tramite il technology transfer e, conseguentemente, anche lo sfruttamento delle invenzioni, gli enti dovrebbero così ricavare un significativo ritorno economico, che dovrebbe contribuire ad aumentare il finanziamento alla ricerca. D’altro canto, le imprese interessate all’innovazione saranno incentivate ad investire nella ricerca, in quanto si assicureranno la possibilità di sfruttare economicamente i trovati delle attività da loro finanziate tramite le pattuizioni contenute nei contratti con gli enti di ricerca.


1È il quadro presentato il 5 giugno 2023 a Milano nella giornata di confronto fra imprese, mondo scientifico, tecnologie, venture capitalist e istituzioni, dal titolo “L’Italia è (o non è) una Paese per l’innovazione nelle scienze della vita?”, promossa al Museo della Scienza e della Tecnica in occasione del lancio della rivista Innlifes.
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