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19 marzo 20248 minuti di lettura

Le novità della settimana in materia di lavoro

Martedì 19 marzo 2024
Giurisprudenza

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 1° marzo 2024, n. 5588 - Sul licenziamento del lavoratore in permesso retribuito

La vicenda trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato a un dipendente per essersi assentato per una giornata dal lavoro per prestare assistenza alla figlia di due anni (malata) e, poi, essersi recato lo stesso giorno presso lo stabilimento della propria società per partecipare a una manifestazione svoltasi dinanzi ai cancelli della fabbrica.

In particolare, in quell’occasione, il lavoratore presentava apposita giustificazione medica relativa allo stato di salute della figlia e, in tal modo, otteneva un permesso retribuito per gravi motivi familiari ai sensi dell’art. 4 della legge n. 53/2000.

Nella fase di merito, i giudici della corte territoriale, confermavano la sentenza (impugnata dalla società datrice di lavoro in quanto aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare e ordinato la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro con condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria).

In particolare, la Corte d’appello, in fase di riassunzione, valutava la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione alla loro portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze nelle quali erano stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale ed altresì la proporzionalità tra i fatti commessi e la sanzione inflitta “al fine di stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario fosse tale in concreto da giustificare la massima sanzione disciplinare”. In particolare, la Corte territoriale ribadiva che “il giudice non è vincolato dalle tipizzazioni di giusta causa contenute nella contrattazione collettiva, ma, per contro, qualora un determinato comportamento del lavoratore invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponde una sanzione conservativa, ciò non può formare oggetto di autonoma e più grave valutazione da parte del giudice (...); assimilava la condotta accertata ad abbandono ingiustificato del luogo di lavoro e verificava che risultava applicabile una delle sanzioni conservative previste dall’art. 9 del CCNL applicato al rapporto, risultando sproporzionato il licenziamento rispetto all’entità del fatto come ricostruito”. Da ultimo, la corte d’appello riteneva, altresì, generiche e prive di prova le eccezioni relative al c.d. aliunde perceptum o percipiendum.

La società datrice di lavoro impugnava la predetta sentenza dinnanzi ai giudici di legittimità, i quali tuttavia ritenevano infondate le domande proposte dalla società.

In particolare, secondo i giudici di legittimità, i giudici d’appello avevano correttamente operato la comparazione tra il fatto accertato e le sanzioni conservative contrattuali collettive, verificando in concreto, la violazione del principio di proporzionalità per omessa compiuta considerazione ha correttamente “richiamato il consolidato insegnamento di legittimità, secondo cui la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, verificata la concretizzazione della giusta causa di licenziamento quale clausola generale, anche in riferimento al requisito di proporzionalità, che esige valutazione non astratta dell'addebito, ma attenta ad ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”.

Da ultimo, in merito all’invocato aliunde perceptum (da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore), i giudici di legittimità hanno ritenuto altresì di rigettare il motivo proposto dalla società, precisando che il datore di lavoro deve, a tal fine, “allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell'assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative (Cass. n. 2499/2017, n. 10694/2023): parimenti, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che affermi la detraibilità, a titolo di aliunde percipiendum, di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione, ha l'onere di allegare le circostanze specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento presuntivo, l'utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di nuovi guadagni e la riduzione del danno (Cass. n. 17683/2018)”.

 

Corte di Cassazione, 1° marzo 2024, n. 5485 - Sul licenziamento per giusta causa

Nel caso di specie, in data 29 marzo 2019 un lavoratore veniva licenziato sulla base di un duplice ordine di contestazioni disciplinari:

  1. la prima, il 1° marzo 2019, per aver riferito a un giornalista del quotidiano “Il Centro” una serie di circostanze false, tra cui: “Io, pagato dalla [Società, ndr.] per non fare niente”, a danno della società datrice di lavoro;
  2. la seconda, il 15 marzo 2019, per aver contattato un collega e avergli chiesto, con insistenza, di testimoniare a suo favore in merito agli episodi riportati nell’articolo dove era stata pubblicata la frase sopra citata.

Il lavoratore si giustificava il 9 marzo 2019 con riguardo alla prima contestazione e il 23 marzo 2019 con riguardo alla seconda.

Il lavoratore veniva poi licenziato all’esito del secondo procedimento disciplinare.

Il giudice di primo grado rigettava l’impugnativa di licenziamento promossa dal lavoratore e tale decisione veniva confermata anche in sede di appello. In particolare, con riguardo al primo addebito, i giudici di secondo grado escludevano l’esercizio di legittimo esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica espresso tramite un articolo di stampa, ritenendo che l’esposizione dei fatti da parte del lavoratore superasse i limiti della continenza formale. La Corte territoriale riteneva invece infondato il secondo addebito contestato al lavoratore, considerando la richiesta a una persona a testimoniare a proprio favore su un fatto specifico (e non di testimoniare il falso) esercizio del proprio diritto di difesa.

Il lavoratore ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando tra l’altro che il licenziamento gli fosse stato intimato oltre la scadenza del termine per l’irrogazione della sanzione disciplinare stabilito dalla contrattazione collettiva, dovendosi ritenere pertanto accolte le relative giustificazioni.

Sul punto la Corte di Cassazione ha statuito che “in tema di licenziamento disciplinare, la violazione del termine di cui all'art. 21, n. 2, comma 3, del c.c.n.l. gas e acqua del 2011, secondo cui, se il provvedimento disciplinare non viene emanato nei dieci giorni lavorativi successivi al quinto giorno dal ricevimento della contestazione, le giustificazioni si riterranno accolte, non integra una mera violazione di natura procedimentale ma comporta la totale mancanza della giusta causa per effetto dell'ammissione del datore di lavoro dell'insussistenza della condotta illecita sanzionata; ne deriva che, in tale ipotesti la tutela applicabile è quella di cui all'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970 (e non quella di cui al comma 6 della predetta norma)”.

Secondo la Suprema Corte, “la sentenza gravata risulta infatti contraddittoria nella misura in cui nega rilievo al secondo addebito disciplinare, ma vi ricollega l'effetto integrativo della prima contestazione con proroga o sospensione del termine per l'irrogazione della sanzione, in contrasto con il principio di affidamento e con l'espressa previsione contrattuale collettiva. […] il licenziamento in esame, intimato nella vigenza della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 92/2012, doveva perciò considerarsi non semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale (al pari dell'intempestività della contestazione oggetto della pronuncia di questa Corte, a sezioni unite, n. 30985/2017), bensì illegittimo per l'insussistenza del fatto contestato, per avere il datore di lavoro accolto (per effetto giuridico stabilito dalla regolamentazione contrattuale collettiva) le giustificazioni del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa, con applicabilità della tutela di cui all'art. 18, co. 4, della legge n. 300/1970”.

In conclusione, i giudici di legittimità hanno statuito che “l'accertamento giudiziale dell'illegittimità o insussistenza di addebito disciplinare comporta che il datore di lavoro non possa avvalersi della relativa contestazione ad alcun effetto; in particolare, non potrà avvalersene per prorogare o sospendere unilateralmente i termini fissati dalla contrattazione collettiva per l'irrogazione di sanzioni riferite ad altra contestazione, nell'ambito di procedura disciplinare in precedenza avviata e per la quale il lavoratore abbia fornito le proprie giustificazioni, poiché dette giustificazioni si intendono accolte se non seguite da provvedimento disciplinare comminato entro un termine prefissato”.

Su questi presupposti, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore.


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