
28 febbraio 2025 • 12 minuti di lettura
Antitrust Bites – Newsletter
Febbraio 2025L'attesa pronuncia della Corte di Giustizia sull'applicazione del termine decadenziale di 90 giorni per l'avvio dei procedimenti dell'AGCM
Con due sentenze del 30 gennaio 2025, rese nei casi C-510/23 e C-511/23, la Corte di Giustizia dell'UE si è pronunciata sul tema della compatibilità con il diritto UE dell'applicazione di un termine decadenziale di 90 giorni, quale quello previsto dall'art. 14 della legge 689/1981, per l'avvio dei procedimenti istruttori dell'AGCM in materia di tutela del consumatore e antitrust.
Le due sentenze in commento confutano l'orientamento oramai granitico nella giurisprudenza italiana che, a seguito di un annoso dibattito, era giunta a ritenere applicabile anche ai procedimenti dell'AGCM l'art. 14 della legge 689/1981 – norma che prevede un termine decadenziale di 90 giorni per la contestazione delle violazioni amministrative. Secondo tale orientamento, sostenuto per anni dalla giurisprudenza nazionale e avallato da una nota dell'Ufficio Studi del Consiglio di Stato di luglio 2023, l'avvio dell'istruttoria oltre 90 giorni dalla conoscenza degli elementi essenziali della violazione avrebbe potuto portare all'annullamento integrale del provvedimento adottato dall'AGCM, come in effetti è avvenuto in diversi casi.
L'esigenza di verificare la compatibilità di tale orientamento con la normativa UE – che la stessa AGCM aveva evidenziato in passato, sollecitando i giudici a sottoporre la questione alla Corte di Giustizia – è stata infine colta dal TAR Lazio nel 2023 che, nell'ambito di due giudizi riguardanti rispettivamente una pratica commerciale scorretta e un abuso di posizione dominante, ha formulato un rinvio pregiudiziale chiedendo alla Corte di Giustizia di chiarire se l'applicazione di un termine di 90 giorni per l'avvio del procedimento per l'accertamento di una pratica commerciale scorretta o di una pratica anticoncorrenziale sia compatibile con il diritto UE (si v. al riguardo la nostra pubblicazione Antitrust Bites – settembre 2023).
Con le tanto attese sentenze in commento, la Corte anzitutto premette che il diritto UE non osta alle normative nazionali che fissano termini procedurali in materia di accertamento delle infrazioni, purché tali termini siano ragionevoli e non compromettano l'effettiva attuazione del diritto UE. Per valutare la ragionevolezza del termine – secondo la Corte – occorre considerarne la durata, le modalità della sua applicazione (quale il suo dies a quo), nonché la peculiarità dei casi, che possono richiedere una complessa analisi materiale ed economica.
Rispetto al regime italiano, la Corte ha sottolineato che l'applicazione di un termine di 90 giorni per l'avvio della fase istruttoria rischia di ledere l'autonomia e la discrezionalità dell'AGCM, impedendole di raccogliere gli elementi necessari a dimostrare l'infrazione contestata e obbligandola a istruire i casi di cui è investita secondo un ordine meramente cronologico, senza che possa tenere conto delle peculiarità inerenti a ciascun caso.
Inoltre, secondo la Corte, le conseguenze che la normativa nazionale ricollega all’inosservanza del termine appaiono idonee a generare un rischio sistemico di impunità per i fatti integranti infrazioni al diritto della concorrenza e al divieto delle pratiche commerciali sleali, compromettendo l'applicazione di sanzioni efficaci e dissuasive, anche alla luce dell’impossibilità per l’AGCM di avviare una nuova istruttoria avente ad oggetto la stessa violazione, in forza del principio del ne bis in idem.
La Corte chiarisce infine che l'inosservanza del termine di 90 giorni non comporta l'automatica violazione dei diritti di difesa delle imprese (che la previsione di termini procedurali mira a garantire), fintanto che nessuna decisione venga adottata nei loro confronti in assenza di una fase istruttoria in contraddittorio, nel corso della quale le imprese abbiano potuto far valere pienamente i propri diritti della difesa. Tuttavia, indipendentemente dall'applicazione di un termine di 90 giorni, la Corte precisa che la discrezionalità delle autorità nazionali di concorrenza nel trattare i casi di cui sono investite non può tradursi in uno stato di inattività delle stesse nella fase pre-istruttoria, che deve comunque concludersi entro un termine ragionevole.
Alla luce di quanto sopra, la Corte, segnando così la fine di un orientamento granitico nella giurisprudenza italiana, ha concluso che una normativa che impone un termine di 90 giorni per la conclusione della fase preistruttoria, pena la decadenza dell'Autorità dall'esercizio della sua potestà sanzionatoria, si pone in contrasto con il diritto UE letto alla luce del principio di effettività.
Le pratiche di greenwashing ancora una volta sotto la lente dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato
Con provvedimento del 21 gennaio 2025, l'AGCM ha sanzionato per 8 milioni di euro alcune imprese appartenenti a un importante gruppo attivo nel settore della spedizione, trasporto e consegna merci per aver organizzato, finanziato e comunicato un'iniziativa di sostenibilità ambientale con modalità tali da integrare una pratica commerciale scorretta, in violazione degli artt. 20, 21, 22 e 26, lett. f) del Codice del consumo.
Con il provvedimento in commento, l'AGCM ha accertato in primo luogo che le imprese hanno utilizzato dichiarazioni ambientali ambigue e/o presentate in modo non sufficientemente chiaro, specifico, accurato, inequivocabile e verificabile, anche in ragione della commistione tra le nozioni di "compensazione" e "riduzione" delle emissioni di CO2, che le imprese non si sarebbero curate di distinguere con la dovuta accuratezza. Tra l'altro, alcuni dei claims impiegati dalle imprese avrebbero lasciato intendere il pieno raggiungimento di obiettivi ambientali quando in realtà tali obiettivi erano stati realizzati solo in parte.
L'AGCM ha inoltre accertato diversi profili di scorrettezza in relazione ad un'iniziativa per la protezione del clima, la cui adesione da parte dei clienti delle imprese era obbligatoria, come anche il pagamento di un contributo per tale progetto, a fronte della possibilità di ottenere un certificato (non richiesto) attestante l'avvenuta compensazione di emissioni di CO2. Secondo quanto accertato dall'Autorità, le imprese avrebbero determinato l'importo del contributo senza condurre una previa valutazione in merito ai costi effettivamente necessari ai fini della compensazione e riduzione delle emissioni; non avrebbero inoltre specificato che i clienti di maggiori dimensioni non avrebbero contribuito economicamente al progetto e, non ultimo, avrebbero lasciato intendere che anche loro avrebbero sopportato gli oneri economici relativi al progetto, quando al contrario gli oneri economici sarebbero stati ribaltati sui clienti e le imprese vi avrebbero tratto profitto.
Il provvedimento in esame si pone sulla scia dei vari interventi dell'AGCM volti a contrastare il fenomeno del cd. greenwashing, ossia l'uso distorto o ingannevole delle asserzioni ambientali (cd. "green claims"), che si concreta nel suggerire o dare comunque l'impressione, nell'ambito di una comunicazione commerciale, del marketing o della pubblicità, che un prodotto o un servizio abbia un impatto positivo o sia privo di impatto sull’ambiente o, ancora, sia meno dannoso per l’ambiente rispetto a prodotti o servizi concorrenti. La lotta a questi fenomeni è una priorità nell'attività di enforcement dell'AGCM, consapevole del crescente interesse da parte di consumatori e imprese nei confronti della tematica dei claims ambientali (si v. al riguardo la nostra pubblicazione Sostenibilità e tutela del consumatore: quando i green claims rischiano di integrare pratiche commerciali scorrette | DLA Piper).
La Corte di Giustizia dell'Unione europea si è pronunciata in tema di risarcimento del danno derivante da violazioni del diritto della concorrenza
Con sentenza del 13 febbraio 2025, la Corte di Giustizia dell'UE si è pronunciata su un rinvio pregiudiziale formulato dalla Corte Suprema dei Paesi Bassi relativo alla competenza giurisdizionale in materia di risarcimento del danno derivante da violazioni del diritto della concorrenza.
La domanda di rinvio verteva sull'interpretazione dell'articolo 8, punto 1, del regolamento n. 1215/2012, che prevede che una persona domiciliata in uno Stato membro possa essere convenuta, in caso di pluralità di convenuti, davanti all'autorità giurisdizionale del luogo in cui uno di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista un collegamento così stretto da rendere opportuna una trattazione unica e una decisione unica.
In particolare, la Corte è stata chiamata a chiarire se, nel caso di domande volte a far sì che una società madre e la sua società figlia siano condannate in solido a risarcire il danno subito a causa della commissione, da parte della società figlia, di un illecito antitrust, il giudice del domicilio della società madre, nel valutare la propria competenza ai sensi dell'articolo 8, si debba fondare sulla presunzione secondo cui, qualora una società madre detenga la totalità o la quasi totalità del capitale di una società figlia, essa eserciti un'influenza determinante sulla controllata.
La Corte ha rilevato che, ai fini dell'applicazione dell'articolo 8, il giudice deve verificare se tra le domande promosse da uno stesso attore nei confronti di più convenuti sussista un vincolo di connessione tale da rendere opportuna una decisione unica per evitare soluzioni che potrebbero essere tra loro incompatibili se le cause fossero decise separatamente.
Secondo la Corte, la sussistenza del vincolo di connessione può ritenersi dimostrata qualora sia accertato che una società madre e la sua società figlia formano un'unità economica e, quindi, un'unica impresa ai sensi delle regole di concorrenza del diritto dell'Unione. L'esistenza di tale unità economica che ha commesso l'infrazione implica ipso iure una responsabilità solidale tra le entità che compongono l'unità economica al momento della commissione dell'infrazione.
Inoltre, la Corte ha affermato che secondo una giurisprudenza costante, quando una società madre detiene direttamente o indirettamente la totalità o la quasi totalità del capitale della sua società figlia che ha commesso un'infrazione alle regole di concorrenza, esiste una presunzione confutabile di influenza determinante e di responsabilità della società madre.
La Corte ha quindi risposto in modo affermativo al quesito posto dal giudice del rinvio, chiarendo che l'articolo 8 non osta a che il giudice del domicilio della società madre, investito delle domande di risarcimento dei danni derivanti dalla commissione, da parte della società figlia, di un'infrazione alle regole di concorrenza, fondi la sua competenza sulla presunzione dell'esercizio di un'influenza determinante da parte della società madre sulla sua società figlia, purché i convenuti non siano privati della possibilità di avvalersi di indizi probatori al fine di confutare la presunzione.
Avvio di una consultazione pubblica sulla revisione del regolamento di esenzione per categoria applicabile agli accordi di trasferimento di tecnologia e delle relative linee guida
La Commissione europea ha avviato una consultazione pubblica sulla revisione del regolamento (UE) n. 316/2014 relativo all’applicazione dell’articolo 101, par. 3 TFUE agli accordi di trasferimento di tecnologia ("RECTT") e delle relative Linee guida.
Il RECTT prevede un'esenzione dall'applicazione dell'art. 101 TFUE per alcune categorie di accordi di trasferimento di tecnologia quando le seguenti condizioni siano cumulativamente soddisfatte: (i) le quote di mercato delle parti dell'accordo non superano determinate soglie previste dal RECTT; (ii) l'accordo non include restrizioni fondamentali (c.d. hardcore restrictions), come restrizioni sui prezzi, limitazioni della produzione o la ripartizione di mercati o clienti.
Nel novembre 2024 la Commissione europea ha completato una valutazione del RECTT e delle Linee guida, i cui esiti sono racchiusi nello Staff Working Document che evidenzia il successo del RECTT e delle Linee guida nel raggiungimento dei propri obiettivi (si veda Antitrust Bites – Newsletter | DLA Piper).
L’obiettivo della consultazione pubblica è quello di raccogliere le osservazioni dei soggetti interessati a parteciparvi con riferimento alle tematiche emerse nel contesto di tale valutazione, al fine di valutare una possibile revisione del RECTT e delle relative Linee guida. Tra le questioni emerse di maggior rilievo vi sono le seguenti: l'estensione dell’ambito d’applicazione del RECTT ampliando la definizione di diritti tecnologici per includere determinate categorie di dati o di diritti in materia di dati; l'opportunità di rivedere le soglie delle quote di mercato; l’opportunità di modificare le Linee guida con riferimento ai c.d. pool tecnologici; l'aggiornamento del RECTT e delle Linee guida al fine di integrare nelle stesse la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea.
I soggetti interessati a partecipare alla consultazione pubblica possono presentare le proprie osservazioni entro il 25 aprile p.v.
Per il Consiglio di Stato il rapporto tra paziente e fornitore accreditato dal sistema sanitario nazionale può costituire un rapporto di consumo
Con la sentenza del 28 gennaio 2025, il Consiglio di Stato ha chiarito che può costituire una pratica commerciale scorretta la condotta di una società attiva nella fornitura di ausili terapeutici, anche in presenza dell'accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Una società aveva impugnato, dapprima davanti al TAR Lazio e poi davanti al Consiglio di Stato, il provvedimento con cui era stata sanzionata dall'AGCM per aver posto in essere due pratiche commerciali ritenute ingannevoli. Nel proprio ricorso l'appellante aveva sostenuto che le prestazioni erogate ricadessero nel perimetro del SSN e, pertanto, fossero prive del carattere dell'economicità, poiché in Italia quello sanitario costituirebbe un servizio di interesse generale non economico. Di conseguenza, la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette (e in generale quella di tutela del consumatore) non sarebbe risultata applicabile.
Nel rigettare l'appello, il Consiglio di Stato ha chiarito che la distinzione tra servizio di interesse economico generale e servizio di interesse generale non economico attiene alle norme relative sul libero mercato e la concorrenza, ma è irrilevante ai fini dell'applicazione della disciplina in materia di tutela del consumatore.
Ai fini dell'instaurazione di un rapporto di consumo, precisa il Collegio, rilevano le diverse nozioni di "consumatore" e di "professionista", rispettivamente il paziente e la società fornitrice dell'ausilio terapeutico nel caso di specie, poiché il paziente, quando si rivolge ad una impresa accreditata dal SSN per l'acquisto, assume una decisione di natura commerciale. Ciò in quanto il paziente sceglie se rivolgersi direttamente al SSN, ovvero se reperire autonomamente sul mercato quanto necessario in base a prescrizione medica, nonché, in questo secondo caso, sceglie a chi rivolgersi tra i più operatori economici accreditati. In questo quadro non rileva che la domanda dell'ausilio terapeutico sia intermediata dal medico. Infatti, il medico si limita ad individuare la tipologia di ausilio da prescrivere, senza indicare il professionista al quale rivolgersi.
Inoltre, il Collegio chiarisce che, sebbene il professionista-fornitore intrattenga con il SSN un rapporto nelle forme dell'accreditamento, questi instaura anche con il paziente una specifica relazione giuridica frutto di un contatto socialmente qualificato. Il paziente-acquirente, d'altro canto, anche se terzo rispetto alla relazione tra l'ente accreditante e il professionista-fornitore, rimane il soggetto titolare dell'interesse non patrimoniale che giustifica la prestazione (avente carattere patrimoniale).
Alla luce di quanto precede, il Consiglio di Stato ha concluso che il rapporto tra il paziente-acquirente e il professionista-fornitore in regime di accreditamento può configurare un rapporto di consumo, al quale è applicabile la disciplina a tutela del consumatore.