
21 marzo 2025 • 13 minuti di lettura
Labour News - Le novità della settimana
21 marzo 2025In evidenza
Corte di Cassazione, 6 marzo 2025, n. 5936 - É illegittimo il licenziamento intimato per offese rivolte al team leader nella chat tra colleghi
Un lavoratore era stato licenziato per giusta causa per aver inviato dei messaggi vocali con contenuti offensivi, minatori, razzisti e denigratori nei confronti del superiore in una chat WhatsApp tra colleghi, uno dei quali li aveva poi inoltrati al datore di lavoro.
In proposito, la Cassazione ha rilevato come WhatsApp, pur appartenendo ai sistemi di cd. messaggistica istantanea, sia assimilabile alla tradizionale corrispondenza epistolare protetta da segretezza ai sensi dell'art. 15 della Costituzione, in ossequio ai principi ancora di recente espressi dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 170/2023), secondo cui il concetto di "corrispondenza" è "ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza".
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ha quindi ritenuto che i messaggi inviati dal lavoratore ai colleghi membri della chat fossero protetti dalla libertà e dalla riservatezza della corrispondenza, in quanto originariamente condivisi con un numero ristretto di persone e destinati, quanto meno nelle intenzioni del lavoratore, a restare perciò segreti.
Di conseguenza, la Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore, poiché fondato su un contenuto privato coperto dal diritto alla segretezza, indipendentemente dal carattere - gravemente - offensivo dei messaggi e dal fatto che questi erano stati diffusi da un destinatario, senza alcun tentativo di intrusione del datore di lavoro nella chat.
Rinnovo del CCNL AGIDAE per gli Istituti Socio-Sanitari, Assistenziali ed Educativi
Il 12 marzo 2025 è stato firmato il rinnovo del CCNL AGIDAE per il triennio 2023-2025, con importanti novità per i lavoratori del settore socio-sanitario, assistenziale ed educativo.
Uno dei principali interventi riguarda l’incremento dei minimi retributivi: esemplificativamente, per il livello C2 è previsto un aumento complessivo di 175 euro per il livello C2, pari a oltre il 10% della retribuzione attuale, erogato in due periodi: 100 euro nel mese di febbraio 2025 e 75 euro nel mese di ottobre 2025 (per questo livello la retribuzione lorda mensile passa dunque da 1.701,89 euro a 1.876,89 euro).
Importanti aggiornamenti sono introdotti anche sul piano normativo, in primis riguardo i contratti a tempo parziale, per i quali la maggiorazione in caso di lavoro supplementare è aumentata al 15%. Migliora anche il trattamento economico per il lavoro notturno: la maggiorazione sale al 20%, con un incremento del 5%, mentre per le ore notturne svolte nei giorni festivi si arriva al 40%, con un aumento del 10%. Inoltre, l’indennità per la presenza notturna nelle strutture per minori è incrementata da 35 a 45 euro.
Un’innovazione significativa è la creazione del fondo di previdenza complementare Previfonder, con un contributo obbligatorio a carico dei datori di lavoro pari all’1,5% della retribuzione.
Il rinnovo introduce anche nuove opportunità di formazione e progressione di carriera, consentendo ai lavoratori l'accesso a corsi di educazione continua in medicina ("ECM"), con finanziamento per il 50% a carico dei datori di lavoro.
Sono previste inoltre modifiche al sistema di inquadramento professionale, con l’istituzione di una nuova posizione economica A1 per il personale impiegato nell’attesa notturna nelle comunità per minori.
Infine, il contratto prevede un trattamento più favorevole per la maternità, garantendo il 100% della retribuzione durante il congedo obbligatorio, e, inoltre, aggiorna la disciplina sul premio di merito e la progressione di carriera.
Nuove regole sull'apprendistato professionalizzante per i giovani calciatori
Importanti novità hanno di recente riguardato i cd. "giovani di serie", ossia quegli atleti delle società calcistiche che accedono al mondo del lavoro a un’età compresa tra i 14 e i 19 anni e che non hanno avuto un numero di presenze nelle massime competizioni tali da qualificarli ancora come professionisti.
A seguito di alcune osservazioni critiche sollevate dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), con Comunicato Ufficiale 159/A del 30 gennaio scorso la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) ha modificato le Norme Organizzative Interne Federali (NOIF), disponendo ora che la stipulazione del contratto di apprendistato professionalizzante con il club calcistico è subordinata a un'espressa manifestazione di volontà da parte del calciatore, in assenza della quale il giocatore è libero di determinare liberamente il proprio prosieguo di carriera.
Prima di questa modifica, le società calcistiche avevano il diritto di stipulare un contratto professionalizzante della durata massima di tre anni, senza necessità di un consenso esplicito da parte del calciatore.
Le altre novità
Giurisprudenza
Corte di Cassazione, 16 marzo 2025, n. 6966 - È ritorsivo il licenziamento intimato a chi rifiuta di guidare un'auto aziendale troppo angusta
La pronuncia in esame tratta del caso di un licenziamento comminato da una società di vigilanza privata a una propria guardia giurata, a seguito del reiterato rifiuto di quest'ultimo di prendere parte alle ronde notturne, già precedentemente contestato sul piano disciplinare, fondato sull'assunto che l'autovettura assegnatagli fosse da lui inutilizzabile, per via della sua corporatura e della sua statura.
Nel corso dei giudizi di merito, il Tribunale e la Corte di Appello di Bologna avevano dichiarato nullo il licenziamento in quanto ritenuto ritorsivo, rilevando come il lavoratore in precedenza avesse formulato richieste di rotazione dei turni (non riscontrate o comunque non accolte dal datore) e l'autovettura in dotazione, anche priva di sedile regolabile, fosse effettivamente inidonea a consentirgli di rendere la prestazione lavorativa.
In particolare, i giudici avevano ritenuto che la scelta datoriale di fornire al lavoratore un'autovettura inadatta all'uso per lui fosse dovuta alla volontà di metterlo in difficoltà e che il lavoratore, in buona fede, avesse segnalato a più riprese l'impossibilità di utilizzarla e fosse sempre rimasto a disposizione del datore di lavoro, sino a fine turno.
La Corte di Cassazione ha ricordato in primo luogo che, in un rapporto a prestazioni corrispettive quale quello di lavoro, il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione lavorativa è legittimo, a norma dell'art. 1460 c.c., se esso è proporzionato "all'illegittimo comportamento del datore di lavoro". In altri termini, ci deve essere "equivalenza tra l'inadempimento altrui e il rifiuto di rendere la propria prestazione, il quale deve essere successivo e causalmente giustificato dall'inadempimento della controparte".
Chiarito ciò, per i giudici di legittimità la motivazione della Corte di Appello non è censurabile in quanto la valutazione dei reciproci inadempimenti che ha portato a ritenere giustificato il rifiuto del lavoratore e, di conseguenza, la natura ritorsiva del licenziamento - come tale rimessa al giudice di merito e incensurabile in cassazione - è stata condotta secondo parametri oggettivi.
Corte di Cassazione, 10 marzo 2025, n. 6398 - Il lavoratore può essere licenziato anche se non passa alle “vie di fatto”
La Suprema Corte ha cassato con rinvio una pronuncia della Corte d'Appello di Genova, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per insubordinazione di un lavoratore, colpevole di insulti e minacce, mai sfociate in aggressioni fisiche.
Secondo i giudici di secondo grado, tali condotte erano meritevoli di essere punite con una sanzione conservativa, sulla scorta del CCNL di riferimento (imprese e società esercenti servizi ambientali), che prevede espressamente quale giusta causa di licenziamento l'aggressione verbale seguita dalle c.d. “vie di fatto”.
L'ordinanza in esame in esame ha invece ribadito anzitutto che le previsioni della contrattazione collettiva sono soltanto esemplificative delle possibili condotte e che esse si limitano a introdurre una scala di valori, che rappresenta uno dei parametri da considerare nel momento in cui si valutino fatti rilevanti sul piano disciplinare, ai fini di accertare la sussistenza di una giusta causa.
La decisione ha poi ricordato che l'insubordinazione è l'inosservanza della scala gerarchica presente nell'organigramma aziendale, realizzata o mediante il rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori oppure mediante qualunque altro comportamento idoneo a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale.
Premesso ciò, continua il provvedimento, qualora tale inosservanza non si manifesti nella mancata esecuzione o attuazione di un ordine, bensì in comportamenti ingiuriosi e minacciosi – come nel caso di specie – si è in presenza di un quid pluris, che il giudice di merito deve prendere in considerazione poiché potrebbe "assurgere l'insubordinazione ad un grado di gravità tale da essere equiparabile a quello delle "vie di fatto" e quindi integrare la giusta causa ex art. 2119 c.c.".
Per tale ragione, la Corte di Cassazione ha rinviato la decisione alla Corte territoriale, affinché quest'ultima effettui una nuova valutazione della gravità delle condotte all'epoca contestate al lavoratore, alla luce dei principi sopra riportati.
Circolari e prassi
INPS, messaggio del 14 marzo 2025 n. 913: chiarimenti sull’esclusione dal pagamento del contributo addizionale per i c.d. “lavoratori extra” del turismo
Con il messaggio n. 913 del 14 marzo 2025, l’INPS ha fornito ulteriori indicazioni in merito all’esenzione dal contributo addizionale di cui all’art. 28, comma 2, della Legge 92/2012 per i contratti di lavoro stipulati nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, di durata non superiore a tre giorni, per far fronte a esigenze temporanee nei casi individuati dai contratti collettivi (i c.d. lavoratori "extra"), ai sensi dell’art. 29, comma 2, lett. b), del D.Lgs. 81/2015.
In particolare, l’Istituto ha precisato che, a decorrere dal 1° gennaio 2020, tale esenzione è stata estesa anche alle attività di “mense e ristorazione collettiva” (codici ATECO 56.29.10 e CSC 7.07.05) e del “catering” (codici ATECO 56.29.20 – 56.21.00 e CSC 7.07.05).
Inoltre, l’INPS ha chiarito che i datori di lavoro che hanno versato il contributo addizionale in eccesso possono procedere al relativo recupero attraverso il flusso Uniemens, valorizzando il codice causale “L810”, entro i tre mesi successivi alla pubblicazione del messaggio stesso.
Tema della settimana
Ticket restaurant: possono considerarsi davvero retribuzione?
Il tema del riconoscimento dei buoni pasto come elemento della retribuzione o meno – e, di conseguenza, la loro revocabilità o rimodulazione da parte del datore di lavoro – ha avuto nuova linfa nel periodo pandemico attraverso l'aumento esponenziale del ricorso allo smart working, fino ad arrivare agli ultimi approdi giurisprudenziali che, in maniera piuttosto concorde, sembrerebbero smentirne la natura retributiva, a patto che (non) ricorrano alcune condizioni.
Più in generale, la tematica in esame riguarda un documento, in formato cartaceo o elettronico – il buono pasto o "ticket restaurant" – che consente ai lavoratori di godere di un servizio di mensa giornaliero e, per questo motivo, viene percepito come benefit vero e proprio (quindi retribuzione) dal relativo dipendente. Peraltro, l'inclusione dei buoni pasto all'interno della nozione di retribuzione ha inevitabilmente ricadute trasversali su molteplici aspetti della vita lavorativa, come nel caso della loro fruibilità di prestazione lavorativa resa da remoto, della loro incidenza nella retribuzione feriale e persino della loro incidenza nel calcolo del trattamento di fine rapporto.
A livello giurisprudenziale (si veda, ad esempio, Cassazione Civile, 17 maggio 2019, n. 13425) viene richiamata una nozione ampia e omnicomprensiva di retribuzione, che deriva da una nozione già presente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, per cui la retribuzione complessiva del lavoratore deriva da "qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato all'esecuzione delle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro e che viene compensato tramite un importo pecuniario". In questa nozione, tuttavia, "non devono essere presi in considerazione (…) gli elementi della retribuzione complessiva del lavoratore diretti esclusivamente a coprire spese occasionali o accessorie che sopravvengono in occasione dell'espletamento delle mansioni".
La nozione di retribuzione esaminata sopra accende una serie di questioni giuridiche per il datore di lavoro, nel momento in cui decide unilateralmente di revocare o ridurre l'importo dei ticket restaurant; infatti, ciò che sta accadendo a livello giurisprudenziale è un costante aumento di pronunce che derivano dal ricorso di lavoratori che si sono visti privati di questo beneficio. È necessario, dunque, capire quali sono le condizioni che legittimano la revoca o la rimodulazione dei buoni pasto alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità.
In linea generale, il consolidato orientamento della Suprema Corte (si veda, in questo senso, Cassazione 28 luglio 2020, n. 16135; Cassazione 1° marzo 2021, n. 5547; Cassazione 4 giugno 2021, n. 15629) definisce i buoni pasto non come elemento della retribuzione ordinaria, ma come una "agevolazione di carattere assistenziale" collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, in quanto "estranei al concetto di retribuzione normale, presupponendo un collegamento non con la presenza fisica del dipendente sul posto del lavoro quanto con l'orario effettivamente osservato".
In altri termini, si tratta di un benefit meramente accessorio che consente di accedere, nell'ambito della organizzazione del lavoro, a un rimborso "forfettario" delle spese che il lavoratore deve sostenere per consumare il pranzo e, quindi, che consente una conciliazione delle esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del dipendente stesso. Il buono pasto, infatti, serve per garantire il benessere fisico necessario alla continuazione della giornata lavorativa per quei lavoratori tenuti a svolgere la propria prestazione in un orario di lavoro comprensivo della pausa pranzo.
Dunque, come precisato dalla Corte di Cassazione, "il buono pasto non spetta per il fatto stesso di aver prestato l’attività lavorativa, ma spetta in quanto la durata della giornata lavorativa ricomprenda anche le ore destinate alla pausa pranzo" (Cassazione 28 novembre 2019, n. 31137).
Proprio perché non costituisce un elemento del trattamento retributivo in senso stretto, secondo la Corte di Cassazione 28 luglio 2020, n. 16135, l'erogazione dei buoni pasto può essere revocata anche per volontà unilaterale del datore di lavoro, "in quanto previsione di un atto interno, non prodotto da un accordo sindacale". In aggiunta, secondo i giudici della Suprema Corte, anche qualora l'erogazione dei buoni pasto dovesse avvenire sulla base di una prassi aziendale consolidata nel tempo, tale circostanza comunque "non inficia il presupposto della natura non retributiva dell'erogazione" (e, quindi, in astratto, della sua revocabilità).
Più di recente, sia la giurisprudenza di legittimità, con la pronuncia della Corte di Cassazione del 26 marzo 2024, n. 8090, sia la giurisprudenza di merito, con la sentenza della Corte di Appello di Napoli del 3 marzo 2025, n. 342 (la quale, peraltro, ha escluso "la possibilità di computo dei ticket mensa nella retribuzione spettante per il periodo feriale"), ha confermato nuovamente il principio secondo cui i buoni pasto non assumono natura retributiva, con la conseguenza che solo la fonte legale o contrattuale può individuare i buoni pasto come elemento della retribuzione (si veda, in senso conforme, anche la recente pronuncia della Cassazione del 22 luglio 2024, n. 20250).
Premesso tutto quanto sopra, pur ammettendo una sostanziale revocabilità ad nutum dei ticket restaurant per il datore di lavoro, l'orientamento assolutamente maggioritario di cui si è dato conto sinora precisa, tuttavia, dei limiti e delle condizioni di tale revocabilità. Infatti, secondo l'orientamento giurisprudenziale in questione, la contrattazione collettiva (anche aziendale) è libera di prevedere che i buoni pasto assumano valore retributivo. Allo stesso modo, i ticket restaurant potrebbero assumere valore retributivo anche se non previsti come tali dalla contrattazione collettiva, qualora il datore di lavoro, in un'ottica di maggior favore nei confronti del dipendente, li abbia previsti come elementi fissi della retribuzione all'interno del contratto di lavoro.
In ambedue queste condizioni, pertanto, il datore di lavoro non sarebbe più libero di revocare unilateralmente i buoni pasto, in quanto si tratterebbe di elementi facenti parte della retribuzione ordinaria del lavoratore.