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7 febbraio 20259 minuti di lettura

Labour News - Le novità della settimana

7 febbraio 2025
In evidenza

Corte di Cassazione, 29 gennaio 2025, n. 2063 - La stessa condotta non può essere oggetto di una plurima contestazione disciplinare

La Corte di Cassazione ha recentemente affermato il principio secondo cui anche al datore di lavoro si applica il ne bis in idem, alla stregua del quale il medesimo fatto o condotta realizzati dal lavoratore non possono essere oggetto di due procedimenti disciplinari distinti.

Nel caso di specie, il lavoratore risultava destinatario di due procedimenti disciplinari separati, uno avviato nel 2009 e conclusosi con l'irrogazione di una sanzione conservativa e l'altro avviato nel 2018, a seguito dell'intervenuta condanna penale per i fatti precedentemente contestati, conclusasi con l'irrogazione della sanzione espulsiva. Ad avviso del giudice di merito, i due procedimenti riguardavano i medesimi fatti, sicché, l'intervenuta condanna penale non costituiva un elemento nuovo, suscettibile di autonomo rilievo disciplinare.

Ricorreva quindi per cassazione la società datrice di lavoro, contestando la ricostruzione dei fatti elaborata nella fase di merito e sostenendo che i due comportamenti erano stati semplicisticamente ricondotti sotto una sola condotta. La Corte di Cassazione ha tuttavia osservato che è principio consolidato (cd. principio di consunzione del potere disciplinare) quello per cui non sia consentito, sulla base della mera diversa qualificazione giuridica dei fatti, una plurima contestazione dell'addebito.

Ministero del Lavoro, Interpello n. 1/2025 del 27 gennaio 2025 - Applicabilità della procedura di cui alla Legge 234/2021

Il Ministero del Lavoro ha risposto a un quesito di Federdistribuzione, con il quale è stato chiesto quale sia la procedura da seguire nel caso in cui un datore di lavoro che abbia occupato più di 250 dipendenti nell’anno precedente decida di chiudere simultaneamente due unità produttive: una con più di 50 dipendenti e l’altra con meno di 50.

In particolare, è stato chiesto se, in tale circostanza, sia opportuno osservare la procedura di cui alla L. n. 234/2021 anche in riferimento all’unità produttiva con meno di 50 dipendenti, ovvero se per quest’ultima sia possibile avviare direttamente la procedura di licenziamento collettivo ai sensi della L. n. 223/1991.

La L. n. 234/2021, prevede che, in caso di cessazione definitiva di un’attività, il datore di lavoro deve redigere un piano per ridurre l’impatto occupazionale e produttivo, da discutere con le rappresentanze sindacali interessate, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle imprese del Made in Italy. Tale disciplina si applica obbligatoriamente nel caso in cui un datore di lavoro, in presenza del requisito dimensionale dei 250 dipendenti, proceda alla chiusura di una struttura aziendale nel territorio nazionale, con il licenziamento di almeno 50 dipendenti.

Secondo l’interpretazione fornita dal Ministero, nel caso in cui un datore di lavoro soddisfi il suddetto requisito dimensionale di almeno 250 dipendenti e intenda chiudere più di una struttura, anche nel caso in cui una delle due sedi da dismettere presenti un numero inferiore a 50 lavoratori, dovrà comunque seguire la procedura prevista dalla L. n. 234/2021. Questo approccio risulta essere coerente con i principi generali di tutela dei lavoratori - da applicare in caso di licenziamenti sorretti da motivi economici - volti ad assicurare una parità di trattamento tra i lavoratori di una medesima unità produttiva, rinvenibili nella L. n. 223/1991, che non può che costituire un punto di riferimento per interpretare correttamente anche le disposizioni di cui alla L. n. 234/2021.

 

Le altre novità

Giurisprudenza

Corte di Cassazione, 27 gennaio 2025, n. 1880 - Sospensione Cautelare e Whistleblowing

La Corte di Cassazione ha affrontato la tematica della sospensione cautelare del lavoratore nel contesto di procedimenti disciplinari connessi a indagini penali, nel pubblico impiego.

La Corte ha stabilito che la sospensione cautelare presuppone la pendenza di un procedimento penale per i medesimi fatti oggetto del procedimento disciplinare. Nel caso di specie, il lavoratore era stato sospeso nell’ambito di un procedimento disciplinare distinto da quello concernente i fatti penalmente rilevanti, rendendo la misura adottata illegittima.

Di particolare rilievo all’interno di tale sentenza è la disamina della disciplina del whistleblowing, prevista dall’art. 54-bis del D.Lgs. 165/2001.

La Suprema Corte ha chiarito che tale normativa ha lo scopo di tutelare i dipendenti che denunciano illeciti, proteggendoli da ritorsioni come licenziamenti o sanzioni disciplinari. Tuttavia, la tutela non può essere invocata in presenza di segnalazioni mosse esclusivamente da interessi personali piuttosto che dalla volontà di salvaguardare la legalità amministrativa.

Nel caso concreto, il ricorrente aveva presentato denunce finalizzate a contestare scelte gestionali, non piuttosto a far emergere illeciti, con la conseguente esclusione delle protezioni previste per i whistleblower. Secondo la Corte l'interesse personale traspariva, infatti dalle stesse denunce.

La sentenza rafforza il principio secondo cui il whistleblowing deve essere un mezzo di trasparenza e responsabilità nella pubblica amministrazione, senza divenire un mero pretesto per regolare controversie interne e personali.

Circolari e Prassi

INPS, Messaggio del 31 gennaio 2025 n. 401 - Chiarimenti sul c.d. “Bonus mamme”

L’INPS ha fornito dei chiarimenti in merito alla durata dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri impiegate con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, alla luce delle novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2025.

In particolare, la manovra finanziaria non ha prorogato l’esonero contributivo previsto in favore delle lavoratrici madri di due o più figli (di cui il più piccolo di età non superiore ai 10 anni) che, quindi, non può più essere riconosciuto a partire dal 31 dicembre 2024.

Per quanto riguarda, invece, l’esonero del 100% della quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore, nel limite massimo annuo di 3.000 euro, previsto in favore delle lavoratrici madri di tre o più figli (di cui il più piccolo di età non superiore ai 18 anni), è stato confermato ed esteso dalla manovra finanziaria fino al 31 dicembre 2026. Inoltre, l’INPS previsa che tale esonero “può trovare applicazione anche nelle ipotesi in cui la nascita – cui sono parificati affido e adozione – del terzo o successivo figlio si verifichi nel corso delle annualità 2025-2026. In tali ipotesi, la decontribuzione troverà applicazione a decorrere dal mese di realizzazione di tale evento, sempre che le lavoratrici madri siano titolari di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.

INPS - Circolare del 30 gennaio 2025 n. 32: istruzioni per l’esonero contributivo delle PMI del Sud

L’INPS fornisce le istruzioni per l’esonero contributivo previsto per micro, piccole e medie imprese che occupano lavoratori a tempo indeterminato, nelle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna, previsto dall’art. 1, co. 406, della Legge di Bilancio 2025.

In proposito, la circolare precisa che l’esonero spetta anche ai datori con sede legale in regioni differenti, esclusivamente per i lavoratori impiegati nelle suddette zone e previa verifica delle sedi territoriali dell’INPS.

Per quanto riguarda la somministrazione di lavoro, invece, la circolare chiarisce che la sede cui fare riferimento è quella dell’utilizzatore in quanto è ove si svolge effettivamente la prestazione di lavoro.

Con riferimento ai soggetti fruitori, infine, l’Istituto chiarisce che per il 2025 l’esonero si applica ai contratti a tempo indeterminato attivi al 31 dicembre 2024, esclusi quelli agricoli, domestici e di apprendistato, purché la sede di lavoro rispetti il requisito geografico; per gli anni successivi, l’agevolazione spetta ai rapporti di lavoro incentivabili instaurati entro il 31 dicembre dell’anno precedente.

 

Tema della settimana

"Accomodamenti ragionevoli", tra questi vi è anche lo smart-working

Con una recente sentenza del gennaio 2025 (sentenza n. 605 del 10 gennaio scorso), la Corte di Cassazione ha fornito nuovi spunti per quanto riguarda gli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro è tenuto ad adottare per garantire ai lavoratori disabili parità di trattamento nei luoghi di lavoro.

Prima di entrare nel merito della decisione della Suprema Corte, è opportuno ricordare che, secondo la legge italiana, che ha recepito le indicazioni eurounitarie, "al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 , nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori".

Negli anni, sono stati diversi gli interventi da parte della giurisprudenza (in particolare di merito) che hanno tentato di concretizzare la generica definizione di accomodamenti ragionevoli, nel rispetto dei principi - ormai decennali - sanciti dalla Corte di Cassazione, secondo cui l'adozione di tali misure non può comportare un onere finanziario sproporzionato rispetto alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa, che deve comunque compiere uno sforzo per andare incontro alla tutela della posizione del lavoratore disabile, nel rispetto dei generali principi di correttezza, buona fede e solidarietà sociale.

Ora un esempio di "ragionevole accomodamento" è stato fornito anche dalla Corte di Cassazione.

Un dipendente disabile aveva chiesto che la datrice di lavoro fosse condannata a garantirgli di svolgere la mansione attribuitagli da remoto o – almeno – in regime di lavoro agile, nonostante per le mansioni svolte l'accordo aziendale di smart-working non lo prevedesse.

Al termine della fase di merito, la richiesta del dipendente veniva accolta, in quanto ritenuto, a prescindere dalle disposizioni aziendali, che l'espletamento dell'attività lavorativa in modalità smart-working non comportava per la società oneri finanziari elevati, tenuto conto anche del fatto che il lavoratore aveva già prestato attività lavorativa da remoto durante il periodo pandemico e che quindi era già stato formato e aveva già a disposizione strumentazione necessaria per svolgere la prestazione al di fuori dei locali aziendali.

La Corte di Cassazione ha confermato tale decisione, richiamando – per quanto non direttamente applicabile ratione temporis al caso di specie – anche il recente Decreto Disabilità (D.Lgs. 62/2024), che ha previsto la possibilità per il lavoratore disabile di richiedere al datore di lavoro l'adozione di un accomodamento ragionevole a sua tutela, con il conseguente obbligo per la società di accogliere la richiesta, nei limiti sopra descritti, pena l'attuare una condotta discriminatoria.

In questo caso, come spesso accade, quindi la giurisprudenza ha "integrato" una previsione normativa: ai sensi di legge, infatti, al lavoratore disabile era riconosciuto solo una "priorità" nell'accesso allo smart-working (cfr. art. 17 comma 3-bis L. 81/2017).

Alla luce di tale importante precedente, è possibile che vi siano in un prossimo futuro diverse richieste da parte dei lavoratori disabili di accedere allo smart-working, anche in assenza di specifici pregressi accordi aziendali.