
4 luglio 2025 • 9 minuti di lettura
Labour News - Le novità della settimana
4 luglio 2025In evidenza
Corte di Cassazione, 28 giugno 2025, n. 17383 - La contrattazione collettiva può prevedere l’obbligo di prestare attività lavorativa anche durante le festività infrasettimanali
La Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui il diritto del lavoratore ad astenersi dal lavoro in occasione di determinate festività civili e religiose può essere oggetto di rinuncia tramite accordi sindacali sottoscritti dalle OO.SS. alle quali il lavoratore abbia conferito esplicito mandato.
La Corte d’Appello, in secondo grado, aveva riconosciuto in capo ai lavoratori un diritto soggettivo assoluto e inderogabile di riposo durante le ricorrenze infrasettimanali civili e religiose, con conseguente obbligo del datore di lavoro di concedere il riposo nelle suddette giornate.
La Suprema Corte ha invece proposto una interpretazione totalmente differente dai giudici di secondo grado, sostenendo che il diritto all’astensione dal lavoro nei giorni festivi può essere oggetto di deroga attraverso la contrattazione collettiva. Gli Ermellini hanno poi altresì evidenziato che il giudice di merito avrebbe dovuto accertare l’eventuale esistenza di disposizioni collettive che prevedano tale deroga, e quindi l’obbligo di prestazione lavorativa anche durante le festività infrasettimanali.
Per tali motivi, la Corte ha disposto il rinvio alla Corte d’Appello, affinché verifichi con precisione la presenza di clausole contrattuali collettive che disciplinino l’eventuale obbligo di lavorare in occasione delle festività infrasettimanali.
Corte di Cassazione, 17 giugno 2025, n. 16358 - Nel licenziamento per giusta causa fondato su una pluralità di addebiti, ciascun addebito ha rilevanza autonoma e può giustificare il licenziamento
La Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui, in materia di licenziamento per giusta causa, ove il recesso è fondato su molteplici addebiti contestati nell'ambito del medesimo procedimento disciplinare, ciascun fatto può, se autonomamente e sufficientemente grave, legittimare il licenziamento.
Infatti, ad avviso della Corte, il venir meno della rilevanza disciplinare dei singoli addebiti non pregiudica la rilevanza dei residui addebiti, che conservano rilevanza autonoma, salvo che il lavoratore dimostri che solo una valutazione congiunta dei fatti conferiva al comportamento complessivo quella gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro.
Dunque, una volta provati i fatti nella loro materialità, la sentenza in esame ha chiarito che l’onere della prova grava sul lavoratore, il quale, in caso di impugnazione del licenziamento, è tenuto a dimostrare che i singoli fatti contestati non sono, di per sé soli, sufficienti a giustificare il recesso.
Fine del regime transitorio: dal 30 giugno 2025 torna il limite dei 24 mesi per le missioni a termine in somministrazione
A partire dal 30 giugno 2025 è cessato il regime transitorio che permetteva alle agenzie per il lavoro di superare il limite massimo di 24 mesi nelle missioni a termine dei lavoratori somministrati assunti a tempo indeterminato dall'agenzia di somministrazione. Tale possibilità era prevista dall’art. 31, comma 1, del D.lgs. n. 81/2015, e consentiva l’impiego del medesimo lavoratore oltre tale limite temporale senza la costituzione automatica di un rapporto a tempo indeterminato con l’utilizzatore, a condizione ovviamente che il lavoratore fosse assunto dall'agenzia di somministrazione a tempo indeterminato.
Con l’art. 10 della Legge n. 203/2024 (cd. Collegato Lavoro), il legislatore ha abrogato tale regime transitorio, ripristinando il limite massimo di 24 mesi per le missioni a termine, oltre il quale scatta l'automatica trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore.
Garante Privacy, newsletter del 25 giugno 2025, n. 536 - L’acquisizione dei dati personali contenuti sui profili social della lavoratrice per fini disciplinari costituisce trattamento illecito
Nella newsletter in commento, il Garante per la protezione dei dati personali ha sanzionato una società per aver acquisito illecitamente i dati personali contenuti in un alcuni social network di una dipendente e per averli utilizzati per giustificare il licenziamento per giusta causa.
In particolare, il caso in esame trae origine dal licenziamento intimato a una lavoratrice per alcuni contenuti pubblicati dalla stessa sul profilo Facebook e in conversazioni private su Messenger e WhatsApp, forniti al datore di lavoro da alcuni colleghi della lavoratrice.
A tal proposito, il Garante ha rilevato che tali contenuti, pubblicati in ambienti digitali ad accesso limitato e relativi a contesti estranei all’attività lavorativa, erano stati trattati in assenza di una valida base giuridica, in violazione dei principi di liceità, finalità e minimizzazione previsti dal GDPR.
In ragione di quanto sopra, l’Autorità ha ricordato che anche nell’ambito disciplinare il datore di lavoro deve rispettare i diritti fondamentali del lavoratore e non può utilizzare liberamente dati personali solo perché accessibili online.
Le altre novità
Giurisprudenza
Corte di Cassazione, 28 febbraio 2025, n. 5318 - Necessaria la verifica concreta delle mansioni svolte per qualifica delle attività dell’Amministratore
La Corte di Cassazione conferma che, sebbene la carica di amministratore delegato possa coesistere con quella di dirigente a certe condizioni, non è invece ammessa la sovrapposizione tra la figura di presidente del consiglio di amministrazione e quella di lavoratore subordinato, poiché il presidente è l’organo apicale senza superiore gerarchico.
La Suprema Corte sottolinea che non basta un controllo formale tramite statuti o delibere, bensì è necessaria una verifica concreta delle mansioni svolte per stabilire l’effettiva autonomia o subordinazione.
In caso di riconoscimento errato, il rapporto potrebbe essere riqualificato, con gravi conseguenze fiscali e previdenziali. L’INPS può annullare la posizione assicurativa, richiedere restituzioni contributive e negare il riconoscimento ai fini pensionistici, mentre la società può dover versare contributi aggiuntivi.
Il confine tra ruoli dirigenziali e subordinati è quindi delicato e mobile; la cumulabilità è possibile solo con chiara distinzione di funzioni, struttura di governance che garantisca un superiore effettivo e documentazione concreta.
Legislazione
Emergenza Caldo: Ordinanze Regionali sul lavoro all’aperto nei giorni di rischio elevato
Sale il numero di Regioni che vietano il lavoro all’aperto nelle ore più calde. In Lombardia, dal 2 luglio al 15 settembre, sarà vietato lavorare tra le 12:30 e le 16:00 in cantieri, cave, aziende agricole e florovivaistiche nei giorni in cui verrà segnalato un rischio “alto”. Lo prevede un’ordinanza del presidente Fontana, adottata dopo il confronto con sindacati e datori di lavoro.
Tuttavia, sono escluse le attività urgenti e di pubblica utilità, purché vengano svolte in sicurezza.
Oltre alla Regione Lombardia, anche l’Abruzzo ha emesso un’ordinanza simile, valida fino al 31 agosto; mentre Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Marche, Trentino Alto-Adige e Valle d’Aosta per ora puntano solo su raccomandazioni: inizio anticipato, più pause all’ombra, acqua e rotazione del personale.
Le Regioni si muovono in ordine sparso, mentre le temperature estreme si fanno sempre più frequenti. Secondo il Climate Shift Index, l’attuale ondata di caldo che colpisce Italia, Spagna e Francia è almeno cinque volte più probabile a causa del cambiamento climatico.
Tema della settimana
Il lavoratore che insulta il superiore rivolgendo parole oltraggiose può essere licenziato per giusta causa - Cass., Sez. Lav., 24.6.2025, n. 16925
Il lavoratore che “manda a quel paese” il superiore e rivolge nei suoi confronti insulti volgari può essere legittimamente licenziato senza preavviso.
La questione è stata recentemente affrontata dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l'ordinanza del 24.6.2025, n. 16925.
Il caso in esame ha visto coinvolto un lavoratore licenziato per essersi rivolto ad un superiore con la frase “ma va a cagare” e per aver essersi rifiutato, nello stesso giorno, con atteggiamento intimidatorio di restituire un documento al medesimo superiore, pronunciando in maniera provocatoria altresì la frase “Se il documento non te lo do cosa fai? Mi picchi?” avvicinandosi in modo minaccioso a pochi centimetri dal viso del superiore.
Nel corso del procedimento di primo grado, il lavoratore negava i fatti per come contestati ma il Tribunale di Bari, prima nella fase sommaria con ordinanza, poi con sentenza, rigettava integralmente il ricorso del dipendente ritenendo i fatti pienamente provati dalle risultanze probatorie emerse nel corso del procedimento.
La Corte d'appello di Bari confermava integralmente la sentenza di primo grado ritenendo il quadro probatorio esaustivo e sufficiente a provare la sussistenza della giusta causa di licenziamento, essendo fuori di dubbio che il comportamento del dipendente fosse stato contrario ai doveri civici richiamati dal contratto collettivo applicabile, essendosi concretato nell'utilizzo di espressioni volgari ed irrispettose nei confronti di un superiore, oltre ad atteggiamenti minacciosi, di aperta sfida e disprezzo, tali da violare le norme di comportamento e di “corretto vivere civile”. L'idoneità della condotta a giustificare il licenziamento veniva altresì rafforzata dalla recidiva contestata di un precedente episodio dove il dipendente si era rivolto in modo sempre volgare e irrispettoso nei confronti dello stesso superiore. Da ultimo, la Corte territoriale riteneva integrata anche l'ipotesi di insubordinazione verso un superiore gerarchico, espressamente prevista quale specifico caso di recesso per giusta causa dal contratto collettivo applicato al dipendente.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione con sei distinti motivi, tutti dichiarati infondati e/o inammissibili dai giudici di legittimità. Risulta, in particolare, rilevante soffermarsi sulle statuizioni della Suprema Corte relative all'inammissibilità del primo motivo di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso, il dipendente lamentava il fatto che i giudici di primo e secondo grado avessero di aver erroneamente valutato come gravi le violazioni contestate nel procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento, e conseguentemente, il datore di lavoro avrebbe dovuto tollerare quanto accaduto e applicare, al massimo, una sanzione conservativa.
Gli Ermellini dichiaravano inammissibile il motivo sostenendo che le affermazioni del dipendente non potevano “in alcun modo essere condivise, né in termini generali in relazione ai parametri etici diffusi negli ambienti di lavoro, né, tanto meno, in un contesto lavorativo come quello in esame, per nulla propenso, come evincibile anche dalla specifica previsione del CCNL, a tollerare tali comportamenti, e tanto in linea con quanto riferito [dai testi] secondo cui frasi del genere non erano mai state utilizzate all'interno del gruppo di lavoro”.
Analogamente, la Corte di Cassazione ha confermato che le condotte del dipendente non potessero essere considerate quali una manifestazione del diritto di critica e quindi incensurabili, in quanto “l'atteggiamento fisico e verbale assunto dal reclamante nei confronti del proprio superiore appare del tutto distonico, per modi e contenuti, al principio di continenza sostanziale e formale cui è tenuto il lavoratore (…); anche l'esercizio del diritto di critica (…) con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (…) e formale (…) si traducano in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro”.
Il ricorso in Cassazione del dipendente veniva, pertanto, integralmente rigettato con condanna del lavoratore al pagamento delle spese di lite.