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6 ottobre 202346 minuti di lettura

Innovazione e diritto: le novità della settimana

6 ottobre 2023
Data Protection & Cybersecurity

Come indicare prezzi e sconti dei prodotti: le novità introdotte dalla Direttiva Omnibus e l’impatto nel settore della moda

Con il recente Decreto Legislativo 7 marzo 2023 n. 26, l’Italia ha finalmente recepito la Direttiva Omnibus, introducendo, tra le altre, nuove regole per indicare il prezzo dei prodotti in vendita. Tali novità sono applicabili dal 1° luglio scorso e, già nei primi mesi, hanno impattato significativamente il mondo del retail, soprattutto in occasione di saldi, promozioni e sconti sul prezzo.

  • Il recepimento della Direttiva Omnibus in Italia

Nel mondo delle vendite sia in negozio sia online, la Direttiva Omnibus (UE) 2019/2161 segna una svolta significativa nella protezione garantita ai consumatori, modificando quattro direttive esistenti, quali la Direttiva 93/13/CEE sui contratti di consumo, la Direttiva 98/6/CE relativa alla protezione dei consumatori nei confronti delle indicazioni sui prezzi dei prodotti, la Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali e la Direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori.

Se la nuova normativa introduce obblighi maggiori per tutte le aziende in materia di trasparenza nella classificazione e nel posizionamento dei beni e servizi offerti, di diritto di recesso e rimedi a disposizione dei consumatori in caso di condotta illecita delle aziende, il settore della moda è stato fortemente colpito dalle neo-introdotte disposizioni sulle indicazioni del prezzo al pubblico, nonché sulle eventuali riduzioni, promozioni o sconti applicati.

Più nello specifico, le disposizioni sull’indicazione dei prezzi contenute nella Direttiva Omnibus sono state introdotte in Italia con il nuovo art. 17-bis del Codice del Consumo che, applicandosi alle vendite sia online che in negozio, prevede essenzialmente quanto segue:

Ogni annuncio di riduzione del prezzo deve indicare il prezzo precedente del bene, ossia il prezzo più basso applicato dal professionista nei 30 giorni precedenti. Nel caso di riduzioni del prezzo progressive, operate senza interruzioni nella medesima campagna vendite, il prezzo precedente da indicare è il prezzo originario, senza la prima riduzione di prezzo. Sono esclusi dall’ambito di applicazione della norma, i beni deteriorabili o che possono scadere rapidamente, o i prodotti immessi nel mercato da meno di 30 giorni nel caso dell’utilizzo dei prezzi di lancio.

Riprendendo la lettera dell’art. 2 della Direttiva Omnibus, il nuovo art. 17-bis del Codice del Consumo ha mantenuto un ampio margine di interpretazione, rappresentando per alcuni mesi una grossa incognita per le case di moda e i professionisti del settore. Se infatti da una parte la norma impone obblighi di maggiore trasparenza alle aziende che operano nel mondo del retail, dall’altra non ne precisa l’ambito di applicazione né le modalità con cui i venditori sono tenuti a mostrare i ribassamenti del prezzo dei propri prodotti, creando confusione nel settore.

Per tale ragione, è dapprima intervenuta la Commissione Europea con una serie di orientamenti in merito all’applicazione del nuovo regime sugli annunci di riduzione del prezzo, e poi, poco prima dell’entrata in vigore del sopracitato art. 17-bis, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (cd. MIMIT), con le proprie FAQ. Quest’ultimo, in particolare, ha chiarito, tra le altre cose che:

  • la recente normativa si estende a tutti gli annunci che suggeriscono ai consumatori una diminuzione del prezzo di un particolare articolo in vendita su un e-commerce o in un negozio fisico, rispetto al prezzo precedentemente applicato al medesimo prodotto nello stesso canale di vendita. In tale definizione, rientra qualsiasi tipo di comunicazione pubblicitaria che metta in rilievo un vantaggio economico o un potenziale risparmio associato all’acquisto di un determinato articolo durante un certo periodo temporale;
  • il prezzo precedente, utilizzato come riferimento per gli annunci di riduzione del prezzo, deve essere inteso come il prezzo più basso applicato a un bene offerto in vendita ai consumatori nei 30 giorni precedenti in un particolare canale di vendita, dovendosi pertanto distinguere il prezzo praticato nell’esercizio fisico da quello applicato allo stesso bene sull’e-commerce del medesimo professionista. Tale prezzo precedente rappresenta ogni tipologia di offerta al pubblico, indipendentemente dalla durata di tale offerta (quindi, vale anche per i prezzi applicati per brevissimi periodi di tempo, come in caso di promozioni giornaliere);
  • nel caso di riduzioni progressive nel contesto della medesima campagna promozionale (i.e. le riduzioni che vedono un progressivo aumento della percentuale di sconto senza interruzioni temporali), il “prezzo precedente” da indicare è quello originario di partenza della campagna, ossia il prezzo più basso del prodotto nei 30 giorni precedenti l’inizio della campagna di vendita promozionale; e
  • l’art. 17-bis del Codice del Consumo regola esclusivamente la vendita di beni e non si applica alla fornitura di servizi, anche online.

Il MIMIT ha altresì precisato che, in aggiunta alla disciplina prevista dall’art. 17-bis del Codice del Consumo, potrebbe trovare applicazione anche la disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette laddove l’indicazione del prezzo o della sua riduzione sia ingannevole, inserendosi pertanto in una più ampia condotta suscettibile di pregiudicare il comportamento economico del consumatore, in contrasto con il requisito della diligenza professionale previsto dal Codice del Consumo.

Questo può accadere anche qualora eventuali azioni intraprese nell’ambito di campagne promozionali in cui sono previsti ribassamenti e sconti, pur non rilevando di per sé quali annunci di riduzione di prezzo ai sensi dell’articolo 17-bis, risultino ingannevoli rispetto alle indicazioni di prezzo (ma riguardino aspetti diversi dai ribassamenti) e circa l’esistenza di uno specifico vantaggio di prezzo che però non rileva. Ne è un esempio, la prassi di alcuni brand di pubblicizzare degli sconti apparentemente ingenti, in quanto calcolati su un prezzo base diverso da quello effettivamente applicato nei punti vendita o online.

  • L’impatto sul settore della moda

L’impatto della Direttiva Omnibus, e della successiva introduzione dell’art. 17-bis nel nostro ordinamento è stato significativo in quanto ha richiesto un forte impegno da parte delle aziende operanti nel settore della moda al fine di conformare le loro pratiche in materia di prezzi e sconti alle nuove regole. Molti brand hanno infatti dovuto rivedere le loro strategie di marketing e i loro sistemi di pricing per allinearsi con il nuovo art. 17-bis, come nel caso delle promozioni applicate durante il periodo del Black Friday o degli sconti effettuati nel periodo dei saldi.

Questo in quanto, in qualsiasi caso di dichiarazioni promozionali da parte del professionista che annunciano una riduzione del prezzo, ora è necessario indicare in maniera chiara e trasparente, oltre che la percentuale di sconto secondo le regole già in vigore, il prezzo più basso applicato negli ultimi 30 giorni ai sensi del neo-introdotto art. 17-bis.

In caso di inadempimento a tale dictum normativo, infatti, i brand rischiano le sanzioni amministrative previste dal Codice del Consumo (come da ultimo innalzate dalla stessa Direttiva Omnibus), anche in materia di pratiche commerciali scorrette laddove il prezzo più basso non sia indicato in maniera chiara e trasparente, che possono arrivare fino al 4% del fatturato annuo dell’azienda nello Stato membro interessato. A questo si aggiunge poi un danno reputazionale per il brand che risulti adottare pratiche ingannevoli verso i consumatori.

Su di un simile argomento, può essere di interesse anche l’articolo “Decreto di attuazione della Direttiva Omnibus: Cosa cambia per le vendite online?

 

Intellectual Property

Milan Fashion Week and Fashion Law Trends: il fenomeno dell’upcycling tra moda sostenibile e tutela del marchio

Il fenomeno dell’upcycling (riuso creativo) viene adottato da numerosi brand di moda al fine di promuovere una moda sostenibile. L’upcycling permette di riutilizzare capi, accessori, borse e tessuti già presenti sul mercato per creare nuovi prodotti percepiti come di maggiore qualità, così limitando gli sprechi e promuovendo la creatività. Tuttavia, la tendenza a modificare o rimettere a nuovo prodotti di marca, per poi venderli senza l’autorizzazione del titolare del marchio o senza informare adeguatamente i consumatori delle modifiche apportate, può dar luogo a complicazioni legali. Da ciò deriva una importante complicazione per i brand: è possibile promuovere l’upcycling e contemporaneamente proteggere il proprio marchio? Secondo una recente indagine di Boston Consulting Group, il valore del second hand nel settore della moda e degli accessori di lusso è già pari al 5% delle vendite totali e crescerà fino ad arrivare al 40% nei prossimi anni. Negli ultimi tempi, di fronte all’attenzione mostrata soprattutto dalle Gen Z e Alpha, si sono infatti moltiplicate le iniziative dei brand legate all’upcycling, dando nuova vita ad articoli delle collezioni precedenti e talvolta modificandoli, lanciando siti web dedicati ai propri capi vintage, offrendo agli utenti la possibilità di rivendere i loro e collaborando con le maggiori piattaforme di reselling come Vinted, Vestiaire e Depop per assicurarsi un maggiore controllo sulle vendite. Così, ad esempio, lo scorso anno Valentino ha lanciato il progetto Valentino Vintage, selezionando sette negozi vintage iconici da Seoul a New York in cui i clienti hanno avuto la possibilità di scambiare i propri abiti Valentino in negozio dando loro una seconda vita e il gruppo Richemont ha stipulato un accordo con il marketplace di lusso Farfetch per la rivendita dei propri gioielli. Se da una parte il fenomeno dell’upcycling è sicuramente in linea con gli impegni di adottare politiche e comportamenti più sostenibili assunti dalle aziende per rendere la moda più sostenibile e ridurre gli sprechi allungando il ciclo vitale dei prodotti, dall’altra l’emergere di questa nuova tendenza ha sollevato importanti questioni legate alla tutela del marchio e ai diritti di proprietà intellettuale dei brand che hanno visto rielaborare da terzi i propri prodotti.

Dopo il caso di Chanel che aveva citato in giudizio negli Stati Uniti una società che realizzava gioielli e accessori con i bottoni presi dai capi di abbigliamento della celebre maison francese, è di questi giorni la notizia che Levi’s ha promosso un contenzioso oltreoceano nei confronti della società Coperni per la presunta violazione del marchio e la vendita di prodotti Levi’s modificati. In particolare, Levi’s contesta sia l’uso da parte di Coperni di linguette in tessuto simili alle proprie sia l’offerta in vendita di prodotti Levi’s “rielaborati” che mantengono l’impuntura registrata Arcuate e il marchio della linguetta di Levi’s, creando un potenziale rischio di confusione tra i consumatori, che potrebbero confondere questi prodotti Coperni con collaborazioni o prodotti con licenza di Levi’s a causa dell’uso non autorizzato del marchio. Controversie analoghe sono state promosse anche da Nike, Rolex e Ralph Lauren e trovano tutte il proprio fondamento nei diritti esclusivi di marchio e nel principio di esaurimento (o “first sale doctrine” nel diritto americano).

Guardando alla normativa nazionale, con la registrazione del marchio vengono riconosciuti in capo al titolare una serie di diritti, tra cui il diritto di utilizzarlo in via esclusiva e di impedirne l’uso a chiunque non sia autorizzato. Tuttavia, in base al principio di esaurimento del marchio, una volta che il titolare mette i beni in commercio non potrà più opporsi ad ulteriori e successive commercializzazioni degli stessi sul mercato. L’art. 5 c.p.i. prevede infatti che “1. Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo”. Il comma 2 stabilisce però che tale principio non trova applicazione “quando sussistano motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio. […]”. In tali casi, infatti, i consumatori potrebbero essere portati a credere che le modifiche apportate al prodotto siano state autorizzate dal titolare del marchio, facendo venir meno la funzione distintiva e di garanzia tipica della privativa in questione.

Per tale motivo alcuni servizi – quali, ad esempio, i servizi di riparazione o di pulizia di un prodotto – non sollevano particolari complicazioni rispetto all’ambito di applicazione del principio di esaurimento, permettendo quindi a un terzo di fornire tali servizi senza bisogno di ottenere l’autorizzazione del titolare del marchio. Diversamente, quando una terza parte interviene sui prodotti recanti il marchio apportandovi una modifica materiale in modo permanente con lo scopo di rivenderli (ad esempio, cambiandone il calore, aggiungendo applicazioni e dettagli o combinando il capo con elementi di altri brand), l’applicazione del principio di esaurimento è da ritenersi esclusa.

La giurisprudenza ha interpretato il concetto di alterazione o modificazione in senso ampio, ricomprendendovi il riconfezionamento, la rietichettatura, e addirittura la rivendita secondo modalità di presentazione pregiudizievoli della notorietà del marchio. In tale prospettiva qualsiasi modifica alle modalità di presentazione del prodotto, ancorché limitata alla confezione o alla immagine complessiva, può in linea di principio essere vietata dal titolare del marchio (Tribunale di Milano, 28 febbraio 2022 e Tribunale di Torino, 12 maggio 2008).

Secondo un risalente orientamento giurisprudenziale, è stato ritenuto responsabile di contraffazione il soggetto che reimmette sul mercato prodotti da lui modificati, mantenendo tuttavia su di essi il marchio originario (Trib. Milano 21 febbraio 1977: “il potere di uso esclusivo del marchio viene leso da chi manipoli il prodotto contrassegnato ad esempio sostituendone la parte esterna originale (nella specie: il rivestimento esterno degli accendisigari), poiché in tale caso egli estende abusivamente la protezione del marchio sulla parte proveniente dalla sua manipolazione ma non prodotta dalla ditta titolare del marchio, unica avente il diritto di servirsi in modo esclusivo del contrassegno”). Nello stesso senso Trib. Milano 19 maggio 1980, secondo cui “costituisce contraffazione di marchio la rivendita con il marchio originario di prodotti manipolati, dovendosi intendere per manipolazione qualsiasi alterazione (sostituzione, aggiunta, eliminazione) volta a modificare le caratteristiche originarie del prodotto e le modalità di presentazione di esso al pubblico”. Sul punto, rileva anche la decisione del Trib. Milano 18 maggio 2004 secondo cui “nell’ipotesi in cui parti di prodotti originali recanti un marchio vengano inserite da un terzo in nuovi prodotti, il terzo non può invocare il principio dell’esaurimento del marchio che riguarda la diversa ipotesi di ulteriore circolazione del prodotto originale sul mercato dopo una prima lecita immissione”.

Nel caso dei prodotti customizzati o comunque rielaborati, il prodotto è nuovo, autonomo e diverso rispetto a quello immesso sul mercato dal titolare del marchio e, di conseguenza, non da lui autorizzato. Con sentenza n. 1459 del 3 ottobre 2018, il Tribunale di Udine si è pronunciato sulla questione per la prima volta anche sotto il profilo penale, ravvisando in questo fenomeno un’ipotesi di contraffazione di marchio altrui ex articolo 473 c.p.. Il caso aveva ad oggetto la produzione e commercializzazione di spille ottenute dall’assemblaggio di bottoni recanti alcuni marchi figurativi e denominativi di un brand di moda. Parte di questi bottoni erano originali, altri contraffatti. Con riguardo alle spille realizzate con i bottoni contraffatti, il Tribunale di Udine ha ritenuto indubbia la sussistenza del reato, ma ha poi precisato che anche l’impiego di prodotti originali (ovvero, nel caso di specie, bottoni) integra l’elemento materiale del reato. Inoltre, è stato confermato che l’assemblaggio del prodotto finale dia luogo a un articolo del tutto nuovo che, sebbene rimanga contraddistinto dal marchio originale, non è stato prodotto o in ogni caso autorizzato dal titolare di quel marchio. Il Tribunale di Udine ha dunque concluso affermando che l’attività di customizzazione è lesiva della fede pubblica (ovvero il bene tutelato dall’art. 473 c.p.), proprio perché il prodotto nuovo recante il marchio originale risulta idoneo ad ingannare i consumatori rispetto all’origine imprenditoriale del prodotto stesso.Ancor più recentemente, il Tribunale di Milano ha ritenuto sussistente la contraffazione dei marchi di Airway International Ltd., titolare dei marchi “Dr. Martens” da parte della società resistente che pubblicizzava i celebri stivaletti customizzati attraverso l’aggiunta di borchie, glitter, schizzi di vernice, inserti in tessuto, ecc. e venduti come “modelli unici” a un prezzo superiore rispetto a quello degli articoli originali. Il Tribunale ha ritenuto “che il decreto pronunciato inaudita altera parte debba trovare conferma in quanto, come già osservato in tale sede, non si è verificato l’esaurimento dei diritti di privativa di parte ricorrente sui marchi di cui è titolare, non essendo applicabile tale principio allorché lo stato delle calzature Dr Martens è alterato o modificato dopo l’immissione in commercio da parte di AIRWAIR INTERNATIONAL Ltd (art. 5, co.2 cpi), in assenza dell’autorizzazione di parte ricorrente”. Pertanto, sono stati disposti la descrizione e il sequestro dei prodotti contraffatti e l’inibitoria per la loro produzione, commercializzazione e produzione.

La decisione del tribunale milanese adotta un’interpretazione ancora più ampia del concetto di “alterazione” rispetto alle precedenti e rappresenta sicuramente un risultato importante per la tutela dei brand interessati da questa tendenza, aprendo la strada a nuovi contenziosi. Tuttavia, nello scenario attuale caratterizzato da una sempre maggior attenzione per le tematiche ESG, il fenomeno dell’upcycling impone un bilanciamento tra l’interesse pubblico ad un’economia circolare volta a ridurre gli sprechi e prolungare il ciclo vitale dei prodotti di moda (tradizionalmente destinati ad un consumo poco responsabile) e l’interesse individuale del titolare del marchio a cui sono attribuiti diritti esclusivi. L’instaurazione di un contenzioso su questi temi richiede dunque alle aziende una riflessione più ampia per assicurarsi di non intraprendere azioni che possano essere in contrasto con i propri impegni e campagne in tema di impegno sostenibile ed evitare dunque in ultima istanza un danno d’immagine. Anche per questo motivo, una possibile soluzione già adottata da alcuni brand è quella di lanciare essi stessi l’upcycling dei propri prodotti, in modo da avere il pieno controllo sulla loro trasformazione ed evitare che siano poi terzi a farlo.

Su un argomento simile si veda l’articolo “Come i fashion brand possono promuovere la sostenibilità e proteggere il loro marchio”.

Milan Fashion Week and Fashion Law Trends: La rivoluzione della moda fur free e l’importanza della corretta comunicazione ai consumatori

Nell’industria della moda contemporanea, la transizione verso una mentalità “fur free” ha acquisito notevole importanza, sono infatti sempre di più i brand che abbandonano l’uso di pellicce animali. Un aspetto altrettanto significativo di questa tendenza è l’adozione, da parte di molti brand, di “fur byproducts”, sottolineando un approccio sostenibile e cruelty-free. In questo articolo, esamineremo l’importanza di adottare un’adeguata comunicazione al fine di non ingannare i consumatori, mettendo in evidenza come la moda possa abbracciare la sostenibilità e l’etica senza compromettere lo stile e la qualità.

Un movimento che ha rapidamente guadagnato terreno negli ultimi anni è la Fur Free Alliance, un’organizzazione internazionale che promuove la moda senza l’utilizzo di pelliccia animale o, almeno, di pelli derivanti da allevamenti adibiti a tali scopi.

L’obiettivo primario dell’alleanza è porre un freno all’uso delle pellicce animali nell’industria della moda, in risposta alle crescenti preoccupazioni per il benessere degli animali e l’impatto ambientale dell’industria delle pellicce. Questo consorzio, composto da organizzazioni come la Humane Society of the United States, la Protection des Animaux en Suisse, la Four Paws, la LAV (Lega Anti-Vivisezione) e molte altre, ha dato vita a un movimento di portata globale, impegnato nella promozione di una moda responsabile e compassionevole.

Per raggiungere questa ambiziosa meta, l’organizzazione adotta diverse strategie chiave: si impegna a educare il pubblico sulle condizioni spesso crudeli degli animali negli allevamenti di pellicce e sugli impatti ambientali negativi causati da questa industria; collabora attivamente con case di moda, stilisti, celebrità e influencer, incoraggiandoli a rinunciare all’uso delle pellicce nelle loro collezioni e a diventare sostenitori di una moda senza pelliccia; esercita pressioni sui governi e le istituzioni affinché adottino leggi e regolamenti che vietino l’allevamento e l’uso di animali per la produzione di pellicce; infine, monitora e denuncia le pratiche crudeli nell’industria delle pellicce, fornendo prove tangibili per sostenere la sua causa e spingere verso un cambiamento significativo.

Ciò che viene, invece, accettato da parte della Fur Free Alliance è l’impiego di pellicce provenienti dall’industria della catena di approvvigionamento alimentare. In tal modo, la pelliccia stessa diviene un sottoprodotto dell’industria, evitando il suo smaltimento in discarica e garantendo la massimizzazione del suo utilizzo, rendendolo anche più ecologico. Si tratta dunque di prodotti ottenuti dalla lavorazione di animali destinati al consumo alimentare, come l’agnello e il visone. Gli esempi includono il cuoio di agnello, la lana di visone e la pelle di coniglio.

Tutte queste attività hanno attirato fin da subito numerosi brand internazionali nel settore della moda. Molti stanno progressivamente abbandonando l’uso di pellicce animali, altri, invece, stanno anche esplorando nuove possibilità attraverso l’utilizzo creativo dei “fur byproducts”. L’utilizzo di fur byproducts offre numerosi vantaggi. Innanzitutto, riduce gli sprechi nell’industria alimentare e della moda, contribuendo così alla sostenibilità. In secondo luogo, permette ai brand di continuare a creare prodotti di alta qualità. Infine, questa innovazione dimostra che la moda può essere etica e sostenibile senza compromettere lo stile.

Indubbiamente, l’iniziativa si presenta come una lodevole manifestazione di impegno etico da parte delle case di moda. Tuttavia, è di fondamentale importanza che questi brand dimostrino altrettanta maestria nell’efficace comunicazione di tale impegno ai consumatori e, specialmente, nel veicolare correttamente le informazioni relative alla tipologia di pelliccia che intendono utilizzare nei loro prodotti.

Come noto, secondo i requisiti di etichettatura dell’Unione Europea, i prodotti tessili possono essere messi sul mercato comunitario solo a condizione che siano etichettati, contrassegnati o accompagnati da documenti commerciali conformi al Regolamento (UE) 1007/2011.

In particolare, l’Articolo 12 del Regolamento (UE) 1007/2011 (“Prodotti tessili contenenti parti non tessili di origine animale”) prevede che “(1) La presenza di parti non tessili di origine animale nei prodotti tessili deve essere indicata utilizzando la frase ‘Contiene parti non tessili di origine animale’ sull’etichettatura o il contrassegno dei prodotti contenenti tali parti ogni volta che siano resi disponibili sul mercato. (2) L’etichettatura o il contrassegno non devono essere fuorvianti e devono essere effettuati in modo che il consumatore possa comprenderlo facilmente”.

Analoghe disposizioni sono previste dalla normativa italiana. Ai sensi dell’articolo 4(1) del Decreto Legislativo italiano n. 68 del 9 giugno 2020, “Il produttore o l’importatore che utilizza i termini elencati nell’Articolo 2(1) [che sono: pelle, pelle conciata, pelliccia e fibre di cuoio rigenerato] per materiali o articoli da essi realizzati è tenuto a etichettarli o contrassegnarli per identificare la loro composizione, secondo le disposizioni di questo decreto”. In particolare, l’etichettatura e il contrassegno dei materiali e degli articoli menzionati nel paragrafo 1 devono essere durevoli, facilmente leggibili, visibili e accessibili. Nel caso delle etichette, devono anche essere saldamente applicate attraverso un supporto collegato (cfr. Articolo 4(4) del Decreto Legislativo italiano n. 68 del 9 giugno 2020).

In aggiunta a quanto sopra, in merito alla comunicazione di tali informazioni, il Codice del Consumo italiano stabilisce che, tra le informazioni obbligatorie da fornire sull’etichetta dei prodotti commercializzati, debba esserci l’indicazione “dei materiali utilizzati e dei metodi di lavorazione quando questi sono determinanti per la qualità o le caratteristiche del prodotto” (cfr. Articolo 6(1)(e) del Codice del Consumo italiano).

Le disposizioni citate mirano chiaramente a garantire una comunicazione adeguata, affinché i consumatori ricevano tutte le informazioni essenziali per compiere una scelta informata durante l’acquisto di un prodotto.

È dunque necessario che le case di moda aderenti a pratiche di utilizzo di pellicce animali, ancorché provenienti della catena di approvvigionamento alimentare, adottino una comunicazione trasparente e dichiarino apertamente la tipologia di pelliccia impiegata. Non è sufficiente sostenere di non utilizzare pellicce animali unicamente sulla base della non partecipazione a processi di allevamento di animali appositamente destinati alla produzione di pellicce. Al contrario, è sempre bene esplicitare che si tratta comunque di pelle animale, derivante dagli scarti del mercato alimentare, evitando così ogni tipo ambiguità.

Da un altro punto di vista, informare il pubblico di questa innovativa pratica e dell’adesione delle case di moda a iniziative come quella della Fur Free Alliance, finalizzate alla tutela degli animali, non solo proietta positivamente l’immagine delle aziende ma attrae anche una clientela sempre più orientata verso valori etici. In un mercato in costante evoluzione, la sensibilità verso il benessere degli animali e l’etica e la sostenibilità nella produzione rappresenta un vantaggio competitivo che non può essere trascurato. Pertanto, la comunicazione trasparente nel veicolare messaggi ai consumatori e l’adesione a tali iniziative non solo si allineano con le disposizioni nazionali e comunitarie vigenti, ma servono anche come strumenti efficaci per attirare un pubblico consapevole ed eticamente orientato.

La tendenza dei brand nel settore fashion a diventare fur free e a utilizzare fur byproducts rappresenta dunque un passo importante verso una moda più etica, sostenibile e cruelty-free. Questa evoluzione riflette un cambiamento di mentalità nell’industria della moda, dove l’etica e la sostenibilità diventano sempre più importanti. Una comunicazione chiara e trasparente di queste iniziative è essenziale per guidare il cambiamento e per consentire ai consumatori di fare scelte più consapevoli quando si tratta di moda. Questa tendenza sottolinea come la moda possa essere un’espressione artistica che abbraccia la responsabilità sociale e ambientale, mentre continua a ispirare e innovare.

Su un argomento simile si veda l’articolo “Milan Fashion Week and Fashion Law Trends: il fenomeno dell’upcycling tra moda sostenibile e tutela del marchio”.

La moda: dal catwalk alla tutela legale dell’IP

Nell’entusiasmante mondo dell’industria della moda, la proprietà intellettuale assume una dimensione poliedrica, che trascende la mera tutela dei marchi o la difesa del prodotto finito. Dall’esibizione delle creazioni haute couture durante le fashion week alle vendite online, il panorama della moda si sviluppa come un intricato e variegato ecosistema. Per i consumatori, la moda costituisce un’autentica espressione di sé stessi, un potente strumento di manifestazione dell’identità esteriore.

In un mondo in continua evoluzione, in cui la digitalizzazione avanza inesorabilmente, le imprese devono proteggere anche quei prodotti immateriali esposti al rischio di essere oggetto di sottrazione da parte di terzi. In questo contesto, le sfilate di moda sono un “concentrato” di IP. Le sfilate rappresentano, infatti, il mezzo principale attraverso cui le case di moda si presentano al mondo, rivolgendosi a una vasta platea di clienti, giornalisti ed influencer. Esse non sono più semplici passerelle per modelle e modelli, bensì eventi che incorporano storie, performance e spettacoli di notevole impatto, richiedendo ingenti investimenti e adeguati strumenti di tutela legale. La crescente complessità del settore ha indotto la necessità di strutturare una solida base legale che assicuri la protezione e il corretto funzionamento di queste attività. Solo negli ultimi anni è emersa chiaramente l’importanza fondamentale di tutelare questi eventi, principalmente attraverso gli strumenti legali offerti dalla proprietà intellettuale.

L’effetto “trickle-down” della moda, infatti, spesso si traduce nell’adattamento di concetti di lusso in capi di abbigliamento accessibili ai consumatori. Ad esempio, un colore o una forma di abbigliamento che spopolano sulle passerelle in una stagione possono influenzare i marchi orientati al grande pubblico a introdurre lo stesso stile nei loro prodotti più accessibili. Tuttavia, oltre all’influenza sulle tendenze, l’avanzamento tecnologico ha accelerato la possibilità di copiare direttamente un capo d’abbigliamento. La contraffazione di un capo, che ne replica esattamente o sostanzialmente l’originale, può comprometterne la sua unicità e danneggiare il profitto del designer e del produttore originale, vendendo prodotti a prezzi concorrenziali.

Quindi, sia per le giovani startup che stanno facendo il loro ingresso nel mondo della moda, sia per i marchi storici consolidati, la comprensione e la salvaguardia della proprietà intellettuale costituiscono un aspetto cruciale per il successo continuato. Questo articolo esplorerà e analizzerà le varie forme di proprietà intellettuale rilevanti per l’industria della moda, tra cui marchi, design (o modelli), copyright, brevetti e trade secrets, fornendo preziose indicazioni su come proteggere i diritti di proprietà intellettuale più essenziali per le aziende.

  • Marchi

I marchi rappresentano segni utilizzati nel contesto commerciale con lo scopo di designare l’origine di prodotti e servizi. I marchi che possono essere registrati comprendono quelli denominativi, figurativi, di forma, di posizione, a motivi ripetuti, sonori, di colore, di movimento, multimediale e olografici. La loro funzione primaria consiste nel contribuire in modo cruciale all’instaurazione dell’identità di un marchio, alla creazione di un riconoscimento distintivo e alla riflessione della reputazione dell’ente titolare. Nel mondo dell’industria della moda, alcuni marchi di risonanza, quali ad esempio i marchi verbale “FENDI”, il logo “V”, e il distintivo colore “Tiffany Blue”, sono diventati sinonimi delle rinomate case di moda di lusso. Taluni marchi possono anche svolgere la funzione di marchi di garanzia della qualità, assumendo il ruolo di marchi di certificazione che attestano la conformità dei prodotti a specifici standard predefiniti. Il soggetto titolare del marchio assume quindi la responsabilità di fungere da organismo di garanzia della qualità, vigilando affinché le aziende autorizzate all’uso rispettino scrupolosamente i requisiti di certificazione. Ad esempio, il marchio Woolmark, presente sulle etichette dei capi di abbigliamento, attesta che tali prodotti sono interamente realizzati con pura lana vergine.

Il ruolo fondamentale dei marchi registrati nella protezione delle sfilate di moda risiede nella loro capacità di preservare il pubblico da possibili rischi di confusione e associazione. Benché, infatti, sia possibile acquisire una certa tutela dei propri marchi sulla base dell’uso e del riconoscimento comune, noti come “marchi di fatto” è opportuno notare che tali diritti presentano limitazioni significative. La loro validità è circoscritta all’area geografica in cui effettivamente si è riconosciuti, e stabilire la titolarità effettiva di tali diritti, al fine di impedire ad altri l’utilizzo di marchi simili suscettibili di creare confusione, può rivelarsi un’impresa complessa. L’importanza di preservare gli eventi di moda e di vincolarli a una fonte specifica ha motivato la Camera Nazionale della Moda Italiana a conseguire la registrazione dei marchi “Milano Fashion Week” e “Milano Digital Fashion Week”. La registrazione costituisce quindi il mezzo di gran lunga più efficace per proteggere i marchi in fase di sviluppo. I marchi registrati non solo sono in grado di prevenire, ma anche di scoraggiare terze parti dall’usare un nome o un logo identico o simile in modo tale da generare confusione con il proprio marchio. Inoltre, i marchi registrati godono di una solida base giuridica che conferisce al titolare il diritto esclusivo di utilizzarli in tutto il territorio di registrazione, solitamente per un periodo di dieci anni, rinnovabile indefinitamente.

  • Design (o modelli)

La registrazione di un design (o modello) si concentra sulla protezione dell’aspetto unico di un prodotto, non sulla sua composizione o funzionalità. Per essere registrato, un design deve essere nuovo e originale e non deve essere stato reso pubblico in precedenza. Il design (o modello) rappresenta l’estetica e la forma di un oggetto, che può essere tridimensionale (come una borsa) o bidimensionale (come un tessuto). In alternativa, viene fornita una protezione per il design (o modello) non registrato, ma con un periodo di tutela più limitato. Un design (o modello) comunitario non registrato è protetto per tre anni dalla sua prima divulgazione nell’Unione europea, senza possibilità di estensione. Questa breve protezione è adatta alle collezioni di moda, che spesso seguono cicli stagionali e richiedono un rinnovamento costante dei prodotti. I diritti sul design (o modello) non registrato decorrono dal momento della loro divulgazione. Le passerelle delle Fashion Week spesso rappresentano il primo luogo di divulgazione di questi design nella misura in cui queste rappresentano la prima e più ampia forma di conoscenza, dei nuovi prodotti, per il pubblico (consumatori, altri produttori, esperti del settore, etc). Per godere di tutela il design (o modello) comunitario non registrato deve essere divulgato all’interno del territorio dell’Unione europea. La registrazione di un design (o modello), invece, offre una protezione più ampia e ne agevole la difesa. Può anche creare valore aziendale come parte di un portafoglio di proprietà intellettuale, contribuendo a dimostrare la serietà dell’azienda e offrendo opportunità di licenza o vendita dei diritti di design. Il titolare del design (o modello) può godere di diritti esclusivi per un massimo di 25 anni.

  • Copyright

Il copyright è un diritto legale che protegge opere artistiche e letterarie, come libri, musica e fotografie, fornendo al creatore il diritto esclusivo di utilizzarle e impedendo ad altri di farlo senza autorizzazione. In Italia, questo diritto si applica automaticamente e dura fino a 70 anni dopo la morte dell’autore. Sebbene l’haute couture e la moda di alta concezione possano essere considerate opere artistiche, il copyright di solito non si applica al design fisico dei prodotti di moda o dell’abbigliamento. Ad esempio, un modello di cucito in sé non può essere oggetto di protezione da copyright, ma le istruzioni grafiche o testuali specifiche associate ad esso possono essere tutelate da tale diritto. Il copyright riguarda, quindi, la realizzazione concreta di un’idea, rendendola percepibile e visibile al pubblico. A differenza dei marchi, il copyright è un diritto non registrato che protegge automaticamente le opere artistiche create, indipendentemente dalla volontà dell’autore. Il titolare ha il diritto di utilizzare l’opera e di vietarne l’uso da parte di altri (diritti esclusivi). Questi diritti includono aspetti economici, come il diritto di riproduzione e di diffusione, e diritti morali, come il diritto di attribuzione dell’opera e il diritto di preservarne l’integrità.

Con la diffusione delle sfilate di moda digitali e delle presentazioni delle nuove collezioni online, il copyright ha giocato un ruolo essenziale nella protezione delle opere, consentendo la loro distribuzione su larga scala, dimostrando adattabilità all’era digitale. Nonostante le sfilate di moda siano spesso considerate uniche e irripetibili, esse possono essere considerate opere con una struttura o una trama che può essere in realtà tecnicamente ripetuta. Inoltre, il fine commerciale delle sfilate non costituisce un ostacolo alla protezione da copyright, poiché la normativa vigente non limita tale protezione in base alla finalità dell’opera. Ci sono, infatti, numerose applicazioni del copyright nell’industria della moda, ad esempio nell’uso di monogrammi Louis Vuitton o nella creazione di elementi artistici in pubblicità, siti web e spot pubblicitari. Questo esempio dimostra la potenziale sovrapposizione dei diritti di proprietà intellettuale, i loghi coperti da marchio sono infatti stati utilizzati per creare disegni e tessuti a fantasia coperti da copyright, fornendo più livelli di protezione contro potenziali violazioni. Molto spesso, la migliore protezione deriva dall’uso combinato di diverse forme di proprietà intellettuale per tutelare vari aspetti del prodotto e del processo creativo.

  • Brevetti

Un brevetto è un diritto esclusivo concesso per un’invenzione nuova e utile, che può riguardare un prodotto o un processo, compresi miglioramenti su invenzioni esistenti. L’inventore o il titolare dei diritti ottiene il diritto di impedire ad altri di utilizzare o vendere l’invenzione per un periodo di 20 anni, in cambio della divulgazione dettagliata dell’invenzione stessa. I brevetti vengono concessi regolarmente anche nel settore della moda, ad esempio per nuovi tessuti tecnici, processi di produzione sostenibile, articoli come guanti impermeabili, nuovi metodi di costruzione di capi d’abbigliamento, tessuti repellenti per insetti e processi di tintura. Tuttavia, i brevetti sono applicabili solo nelle giurisdizioni in cui sono stati concessi, richiedono pianificazione strategica per la protezione globale e possono essere un processo lungo e costoso. La scelta di proteggere un’invenzione tramite brevetto, quindi, dipenderà dalla sua natura e dalla necessità di mantenere segreti i dettagli. I brevetti forniscono una protezione robusta, ma la loro divulgazione pubblica può essere un aspetto da considerare, e in alcuni casi, mantenere un segreto commerciale potrebbe essere preferibile.

  • Trade Secrets

Un trade secret è una forma di informazione aziendale che possiede un valore commerciale intrinseco in virtù della sua riservatezza. La sua protezione non prevede una procedura formale di registrazione e perdura finché il segreto è mantenuto segreto o adeguatamente protetto attraverso obblighi di riservatezza pertinenti. Alcune giurisdizioni possono avere leggi specifiche in merito alla tutela dei trade secrets. Nel settore della moda e dei beni di lusso, spesso si sottovaluta l’importanza della protezione dei trade secrets, poiché questo diritto di proprietà intellettuale è tradizionalmente associato alle imprese tecnologiche. Tuttavia, nell’industria della moda, i trade secrets sono diffusi e coprono una vasta gamma di informazioni, come processi di produzione, liste di fornitori o acquirenti chiave, strumenti software per il design e la gestione della logistica. Poiché non esiste un metodo formale per registrare i trade secrets, la loro protezione si basa sul mantenimento del segreto stesso. È essenziale adottare precauzioni adeguate, tra cui la condivisione delle informazioni riservate solo con personale di fiducia e partner esterni che ne abbiano una specifica necessità, richiedere accordi di non divulgazione legalmente vincolanti quando necessario e gestire l’accesso attraverso canali sicuri.

  • Conclusione

In conclusione, il mondo dinamico e affascinante dell’industria della moda è intriso di proprietà intellettuale, che va ben oltre la semplice protezione dei marchi o dei prodotti finiti. Le sfilate di moda rappresentano un elemento fondamentale di questa industria, svolgendo il ruolo di espressione creativa e veicolo di identità per i consumatori. In un’epoca di rapida evoluzione e digitalizzazione, le imprese devono proteggere non solo i loro prodotti tangibili ma anche i loro beni immateriali, inclusi gli eventi di moda. La protezione dei marchi registrati è cruciale per prevenire confusioni e associazioni indesiderate tra marchi simili. La registrazione dei design (o modelli) consente di proteggere l’aspetto unico dei prodotti, mentre il copyright offre una solida base legale per la tutela di opere artistiche e letterarie associate all’industria della moda. I brevetti, se appropriati, possono proteggere invenzioni innovative, mentre i trade secrets, spesso trascurati, sono fondamentali per preservare informazioni aziendali di valore. L’importanza di queste forme di protezione varia a seconda delle esigenze specifiche di ciascuna azienda di moda. La corretta comprensione e gestione della proprietà intellettuale sono fondamentali per il successo continuato nel settore della moda, sia per le nuove start-up che stanno facendo il loro ingresso sia per i marchi consolidati.

Su di un simile argomento, il seguente articolo può essere di rilievo “Moda e design: i contratti di co-branding” .

Baby influencer: i diritti dei bambini nel marketing della moda

Le immagini dei bambini sono sempre più utilizzate nel marketing moderno, ma in Italia, a differenza di altri Paesi, non esistono ancora norme ad hoc per regolare i diritti dei baby influencer nella moda.

  • Il fenomeno dei baby influencer e l’utilizzo dei bambini nella moda

Su molti social network, tra cui Instagram, Facebook e TikTok, assistiamo ormai quotidianamente alla diffusione di immagini o contenuti video di bambini che, sui profili dei propri genitori o con pagine a proprio nome, talvolta verificate da spunta blu, pubblicizzano ogni sorta di prodotto: cibo, giocattoli e, ovviamente, vestiti e accessori sponsorizzati con l’hashtag #ad dalle maggiori case di moda oppure regalati da queste ultime (#gifted) in cambio di post e stories. Ad alimentare tali contenuti sono, spesso, soprattutto i genitori che, più o meno consapevolmente, espongono i propri figli ai rischi della rete.

È opportuno però domandarsi cosa ci sia dietro a questo fenomeno e quali siano le implicazioni legali nell’utilizzare le immagini dei bambini. Del resto, che l’utilizzo delle immagini di bambini nella moda e nella pubblicità sia un tema particolarmente delicato e complesso è emerso in maniera preponderante lo scorso autunno, con la diffusione di due campagne pubblicitarie di un celebre marchio di moda francese, aspramente criticate perché associavano bambini ad oggetti che rimandavano alle pratiche BDSM, acronimo che identifica le pratiche di bondage, dominazione, sadismo e masochismo. Il polverone sollevato dalle critiche non è caduto nel nulla, ma ha portato la società ad avviare una causa da 25 milioni di dollari contro la società di produzione che ha seguito una delle due campagne.

È evidente, quindi, che l’impiego di bambini e lo sfruttamento della loro immagine richieda una certa attenzione, a maggior ragione nel caso dei baby influencer, la cui immagine è di fatto utilizzata a fini di profitto. Sul punto, il principio che dovrebbe guidare le scelte del legislatore è tutela del best interest of the child, avuto riguardo al ruolo del minore nelle scelte da adottarsi in ragione della sussistenza o meno della capacità di discernimento, che genera in capo al minore il diritto di essere ascoltato, sia sulle questioni personali che su quelle patrimoniali.

  • Le implicazioni giuridiche del fenomeno

Occorre anzitutto tener presente che quello del baby influencer è un vero e proprio lavoro, che, come tale, deve essere disciplinato e retribuito. Il primo problema che si pone, dunque, è l’inquadramento di tali mansioni nel contesto della normativa giuslavoristica.

In Italia, il lavoro minorile è disciplinato dalla legge 17 ottobre 1967 n. 977 sul lavoro dei fanciulli (da intendersi i minori di anni 15) e degli adolescenti (di età compresa tra i 15 e i 18 anni). La capacità giuridica in ambito giuslavoristico è riconosciuta ai soggetti che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e solo previe visite mediche necessarie ad accertare l’idoneità al lavoro. Le sole deroghe a tale limite di età sono concesse per lo svolgimento di attività lavorative di carattere culturale, artistico, dello spettacolo o pubblicitario, settore in cui ricadono, al momento – data l’assenza di norme ad hoc – i baby influencer, nonché tutti i modelli e le modelle che lavorano per agenzie di moda. Lo svolgimento di tali attività, tuttavia, è permesso alle seguenti condizioni:

  • ottenimento dell’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro competente per territorio; al riguardo, si noti che l’autorizzazione è dovuta solo in presenza di un effettivo rapporto di lavoro subordinato, mentre l’obbligo è escluso quando l’attività non rientra in un rapporto di lavoro subordinato, come nel caso dell’intervista del minore in un programma televisivo (cfr. Nota n. 7966, 11 settembre 2019);
  • garanzia che la sicurezza, l’integrità psico-fisica e lo sviluppo dei minori, nonché la frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento professionale o di formazione non siano compromessi; e
  • consenso congiunto di entrambi i genitori (Tribunale di Milano, sentenza n. 4379 del 16 luglio 2020) per la valida stipula del contratto di lavoro.

Pertanto, negli accordi sottoscritti dalle agenzie e/o dai brand è fondamentale che tali obblighi e impegni siano riflessi.

Quanto all’uso dell’immagine dei minori, ad esempio da parte dei brand che li hanno contrattualizzati, il D.M. 27 aprile 2006, n. 218 (Regolamento recante disciplina dell’impiego di minori di anni quattordici in programmi televisivi) nell’ambito o al di fuori di un rapporto di lavoro, stabilisce che l’utilizzazione delle immagini o voci dei minorenni deve avvenire con il massimo rispetto della dignità personale, dell’immagine, dell’integrità psicofisica e della privacy. È peraltro lo stesso Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale a stabilire all’articolo 11 che “L’impiego di bambini e adolescenti nella comunicazione deve evitare ogni abuso dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani. Sono vietate rappresentazioni di comportamenti o di atteggiamenti improntati alla sessualizzazione dei bambini, o dei soggetti che appaiano tali.”

Il contratto con il minore dovrà poi disciplinare, oltre al compenso, alla descrizione dei contenuti da produrre e le modalità di pubblicazione dei post e dei video, anche l’utilizzo del nome e dell’immagine dell’influencer ai fini promozionali; in assenza di tale clausola, l’utilizzo dell’immagine trova comunque una propria disciplina nelle disposizioni dettate dall’art. 10 c.c., dagli artt. 96 e 97 della legge sul diritto d’autore. Analogamente, anche il contenuto creato dall’influencer rimane disciplinato dalla legge sul diritto d’autore, che ne determina la paternità e i diritti connessi.

In questo contesto è poi fondamentale sensibilizzare circa l’importanza dell’identità digitale e della tutela della privacy dei minori. In materia, l’art. 8 del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR) stabilisce il limite di anni 16 per il consenso al trattamento dei dati personali da parte dei minori in forma autonoma, ma tale limite – in base a quanto consentito ai singoli Stati membri dal medesimo art. 8 – in Italia è stato portato ad anni 14. Al di sotto di tale limite il trattamento dei dati dei minori e quindi il loro stesso accesso ai servizi digitali è consentito solo previo consenso del titolare della potestà genitoriale.

  • Il modello francese

Come si è detto, In Italia sino ad oggi non esistono norme specifiche in materia e la regolamentazione dei rapporti tra brand, agenzie e baby influencer (o più in generale bambini impiegati nel marketing della moda) è lasciata all’autonomia contrattuale tra le parti e alle norme generali sopra menzionate.

Un interessante intervento normativo, al quale si era ispirato anche il Tavolo tecnico sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social networks, dei servizi e dei prodotti digitali in rete, istituito dalla ex Ministra Cartabia e di cui facevano parte il Ministero della giustizia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, il Garante per la protezione dei dati personali e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, è offerto dalla Francia che, nell’ottobre 2020 ha approvato una legge ad hoc sui baby influencer. Tale legge garantisce ai bambini e agli adolescenti un’adeguata tutela dei diritti di lavoratori, l’accredito dei guadagni su un conto corrente intestato solo al minore che potrà accedervi al sedicesimo anno di età e la possibilità di richiedere la rimozione delle immagini che lo riguardano, garantendo il diritto all’oblio.

Su un argomento simile si veda l’articolo “Come indicare prezzi e sconti dei prodotti: le novità introdotte dalla Direttiva Omnibus e l’impatto nel settore della moda”.

 

Intellectual Property & Commercial

Moda e agevolazioni fiscali: un binomio possibile?

Se è vero che l’industria della moda deve essere, per sua natura, costantemente al passo con i tempi, è altrettanto vero che questo si traduce nella continua realizzazione di nuovi prodotti, modelli e campionari da portare all’attenzione del pubblico attraverso le campagne pubblicitarie.

Sembrerebbe di sì, sebbene, lo diciamo da subito, il contesto normativo sia particolarmente frastagliato e spesso di non facile comprensione.

Il quadro normativo attualmente vigente presenta diverse norme che prevedono, tra gli altri, il riconoscimento di un credito d’imposta per le attività di design e ideazione estetica per la concezione e realizzazione di nuovi prodotti e campionari nonché per gli investimenti pubblicitari. Al contempo, alcune attività di ricerca e sviluppo relative a determinati beni immateriali (IP) rientrano nell’alveo del c.d. Nuovo Patent Box.

In particolare, per le attività di design e ideazione estetica svolte da imprese operanti nei settori tessile e della moda, calzaturiero, dell’occhialeria, orafo, del mobile e dell’arredo e della ceramica, per la concezione e realizzazione di nuovi prodotti e campionari, il credito d’imposta è riconosciuto: nel 2023, in misura pari al 10 per cento della relativa base di calcolo, nel limite massimo annuale di 2 milioni di euro; negli anni 2024 e 2025, in misura pari al 5 per cento, nel limite massimo annuale di 2 milioni di euro.

La disposizione si colloca nell’alveo del c.d. nuovo credito d’imposta “Ricerca, Sviluppo e Innovazione”, per attività di ricerca e sviluppo, di innovazione tecnologica e di design introdotto dalla Legge di Bilancio 2020 (art. 1, commi 198-208, L. 160/2019) al quale possono accedere tutte le imprese residenti nel territorio dello Stato e le stabili organizzazioni di soggetti non residenti.

L’agevolazione spettante è utilizzabile esclusivamente in compensazione tramite modello F24, in tre quote annuali di pari importo a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello di maturazione, a condizione che vengano rispettati gli obblighi documentali, di certificazione, le normative sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e gli obblighi di versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a favore dei lavoratori.

Il nuovo credito d’imposta “Ricerca, Sviluppo e Innovazione” è calcolato in percentuale su diverse tipologie di spese, relative, inter alia (i) al personale impiegato nello svolgimento di attività design e ideazione estetica ammissibili al credito d’imposta, (ii) a quote di ammortamento, canoni di locazione finanziaria o semplice e altre spese relative ai beni materiali mobili utilizzati nell’ambito delle attività rilevanti, (iii) a contratti, materiali, forniture e altri prodotti analoghi impiegati nelle attività rilevanti.

Quanto alle attività agevolabili, il Decreto Mise del 26 maggio 2020 ha chiarito che sono ammissibili al credito d’imposta “Ricerca, Sviluppo e Innovazione” (i) le attività di design e ideazione estetica finalizzate ad innovare in modo significativo i prodotti dell’impresa sul piano della forma e di altri elementi non tecnici o funzionali (quali linee, contorni, colori, struttura superficiale, ornamenti) e (ii) con specifico riferimento alle imprese operanti nel settore dell’abbigliamento e negli altri settori nei quali è previsto un rinnovo ad intervalli regolari dei prodotti, i lavori relativi alla concezione e realizzazione di nuove collezioni o campionari che presentino determinati elementi di novità, in relazione alla fase precompetitiva, che termina con la realizzazione dei campionari non destinati alla vendita.

Ferme le summenzionate disposizioni normative, non è sempre facile individuare quali siano le attività effettivamente agevolabili che devono essere, in ogni caso, dotate dei requisiti di “novità” e “significatività”. Al fine di ottenere un’attestazione circa la loro qualificazione e ammissibilità al credito d’imposta, è possibile richiedere una certificazione preventiva. È stato recentemente pubblicato il comunicato stampa con il quale il Ministero delle Imprese e del Made in Italy ha finalmente annunciato la firma del DPCM che regola la procedura di certificazione. Si tratta di un decreto molto atteso dagli operatori, dal momento che l’ottenimento di quest’ultima consentirà alle imprese di operare in condizioni di “certezza”.

Un meccanismo di funzionamento simile a quello sin qui descritto per il credito “Ricerca, Sviluppo e Innovazione” è previsto per il c.d. “Bonus Pubblicità” che riconosce un credito d’imposta, nella misura massima del 75% del valore incrementale degli investimenti effettuati, alle imprese e agli enti non commerciali che effettuano investimenti in campagne pubblicitarie, sulla stampa quotidiana e periodica, anche on line, e sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, analogiche o digitali, il cui valore sia superiore di almeno l’1% rispetto agli analoghi investimenti effettuati nell’anno precedente sugli stessi mezzi di informazione.

L’accesso a tale agevolazione (che, ad oggi, non prevede limitazioni temporali) richiede la presentazione telematica di una prima domanda con “effetto prenotazione” delle risorse, seguita da un’ulteriore comunicazione tramite la quale confermare gli investimenti effettuati.

Ad esito della presentazione di tutte le domande, il Dipartimento per l’informazione e l’editoria pubblica l’elenco dei soggetti ammessi alla fruizione del credito sulla base delle risorse destinate alla copertura dell’agevolazione.

Il Bonus Pubblicità spettante è utilizzabile esclusivamente in compensazione tramite modello F24, si qualifica quale Aiuto di Stato ed è concesso nel limite massimo dello stanziamento annualmente previsto e nei limiti dei regolamenti dell’Unione europea in materia di aiuti “de minimis”.

Di diverso tenore il c.d. Nuovo Patent Box, che prevede il riconoscimento di una deduzione maggiorata delle spese di ricerca e sviluppo sostenute per il potenziamento e la creazione di alcuni asset IP utilizzati nell’attività d’impresa.

In sintesi, l’agevolazione consente, attraverso l’effettuazione di variazioni in diminuzione da apportare in sede di compilazione dei modelli dichiarativi, (i) di maggiorare del 110% le spese sostenute nello svolgimento di attività di ricerca e sviluppo finalizzate al mantenimento, al potenziamento, alla tutela e all’accrescimento del valore dei beni immateriali agevolabili già esistenti (c.d. regime agevolativo ordinario); (ii) di recuperare, a decorrere dal periodo d’imposta in cui viene ottenuto un titolo di privativa industriale, le spese di R&S che hanno contribuito alla sua creazione fino all’ottavo periodo d’imposta antecedente (c.d. meccanismo premiale).

Sono agevolabili i costi di ricerca e sviluppo sostenuti in relazione a (i) software protetto da copyright; (ii) brevetti industriali (inclusi i brevetti per invenzione, le invenzioni biotecnologiche e i relativi certificati complementari di protezione), brevetti per modello d’utilità, brevetti e certificati per varietà vegetali e le topografie di prodotti a semiconduttori; (iii) disegni e modelli giuridicamente tutelati; (iv) due o più dei suddetti beni immateriali collegati tra loro da un vincolo di complementarietà, tale per cui la realizzazione di un prodotto o di una famiglia di prodotti o di un processo o di un gruppo di processi sia subordinata all’uso congiunto degli stessi.

Quanto sin qui rappresentato rappresenta una panoramica limitata e, certamente, non esaustiva delle agevolazioni attualmente in vigore. Le differenti modalità di calcolo e l’individuazione dei costi agevolabili, unitamente alle limitazioni quantitative previste, rappresentano per gli operatori un indubbio profilo di complessità al quale si aggiungono ulteriori componenti.

Infatti, qualora il soggetto beneficiario delle agevolazioni sia parte di un gruppo multinazionale con fatturato consolidato pari o superiore a 750 milioni di euro, sarà soggetto alla disciplina del c.d. Pillar 2. Quest’ultima, in estrema sintesi, prevede il versamento di un ammontare minimo di imposte (pari al 15%) per ciascuna giurisdizione nella quale opera il gruppo da valutare sulla base del livello di imposizione effettiva (c.d. effective tax rate – ETR), tenendo conto anche degli eventuali incentivi di natura agevolativa volti a ridurre il carico fiscale reale.

Si tratta di regole emanate in ambito OCSE con l’obiettivo di contrastare pratiche fiscali distorsive volte alla riduzione del livello di imposizione. Il recepimento della direttiva UE n. 2022/2523 del 14 dicembre 2022 determinerà l’introduzione di norme specifiche all’interno dell’ordinamento italiano con decorrenza 1° gennaio 2024.

Sarà fondamentale, quindi, comprendere se e in quale misura le agevolazioni sin qui riepilogate (e le moltissime altre ad oggi in vigore) possano impattare sul calcolo dell’ETR e sull’eventuale imposizione della c.d. Top-up Tax che verrà prelevata, in prima istanza, dallo Stato di residenza della capogruppo al fine di ristabilire il livello minimo di tassazione, qualora si riscontri l’esistenza di una giurisdizione “a bassa imposizione”.

L’evoluzione normativa rappresentata dovrà, infine, essere coordinata con la c.d. Legge Delega per la riforma fiscale che prevede, tra l’altro, la modifica dell’attuale meccanismo di funzionamento dell’IRES (con l’introduzione di un’aliquota ridotta per i contribuenti che non distribuiscono utili o effettuano specifici investimenti) e la revisione degli incentivi fiscali ad oggi in vigore.

Su di un simile argomento, il seguente articolo può essere di rilievo “Il nuovo patent box, cosa cambia per le imprese e cosa bisogna sapere?"


La rubrica Innovation Law Insights è stata redatta dai professionisti dello studio legale DLA Piper con il coordinamento di Arianna Angilletta, Carolina Battistella, Carlotta Busani, Giorgia Carneri, Silvia CerratoMaria Rita Cormaci, Camila Crisci, Cristina Criscuoli, Tamara D’Angeli, Chiara D’Onofrio, Federico Maria Di Vizio, Enila Elezi, Chiara Fiore, Claudia Galatioto, Laura Gastaldi, Vincenzo Giuffré, Filippo Grondona, Marco Guarna, Nicola Landolfi, Giacomo Lusardi, Valentina Mazza, Lara Mastrangelo, Maria Chiara Meneghetti, Dalila Mentuccia, Deborah Paracchini, Tommaso Ricci, Rebecca Rossi, Roxana Smeria, Massimiliano Tiberio, Alessandra Tozzi, Giulia Zappaterra

Gli articoli in materia di Telecommunications sono a cura di Massimo D’Andrea, Flaminia Perna e Matilde Losa.

Per maggiori informazioni sugli argomenti trattati, è possibile contattare i soci responsabili delle questioni Giulio Coraggio, Marco de Morpurgo, Gualtiero Dragotti, Alessandro Ferrari, Roberto Valenti, Elena Varese, Alessandro Boso Caretta, Ginevra Righini.

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