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14 marzo 202428 minuti di lettura

Innovation Law Insights

14 marzo 2024
Data Protection & Cybersecurity

Telemarketing: sanzione di 79 milioni di euro a nota società energetica

Il Garante Privacy ha inflitto a una nota società energetica una sanzione record di 79 milioni di euro per gravi carenze nei trattamenti dei dati personali di numerosi utenti, realizzati a fini di telemarketing. Si tratta della sanzione più alta irrogata in Italia.

La sanzione alla nota società energetica è immediatamente successivo alla pubblicazione delle motivazioni con cui il Tribunale di Roma ha annullato il provvedimento del Garante Privacy, impugnato dalla stessa società, perché tardivo (su questo, si veda: Il Tribunale di Roma annulla il provvedimento del Garante Privacy perché tardivo).

Il procedimento trae origine da un’indagine della Guardia di Finanza nei confronti di quattro società che ha portato a sanzioni da 1,8 milioni alle stesse, con conseguente confisca delle banche dati utilizzate per le attività illecite per pratiche di telemarketing aggressivo, e acquisizione illecita di dati personali, utilizzati per stipulare contratti di fornitura senza il consenso degli interessati.

In particolare, sarebbe emerso che alcune di queste società svolgevano attività finalizzate a promuovere i servizi di compagnie del settore dell’energia elettrica e del gas e apparivano focalizzate essenzialmente alla promozione dei servizi della nota società energetica, nonostante, come affermato dal Garante stesso, non risultasse esserci “alcun contratto di collaborazione o per prestazione di servizi in essere con [la nota società energetica] e quindi alcuna autorizzazione a stipulare contratti per conto della medesima”.

All’esito di quanto accertato nei confronti delle società indicate sopra, il Garante ordinava un’ispezione proprio nei confronti della nota società energetica, volta a verificare il rapporto tra le società promotrici, e la nota società energetica.

Da queste ispezioni, sarebbero emerse le seguenti violazioni: 

  1. Violazione degli artt. 5, par. 1, lett. f), e 32 del GDPR, per aver omesso di realizzare un’adeguata valutazione dei rischi connessi alla piattaforma di CRM e, conseguentemente, per aver omesso di adottare, nei confronti della rete di agenti ufficiali, le misure adeguate a garantire un corretto utilizzo delle credenziali di accesso al sistema aziendale e ad evitare la condivisione delle credenziali stesse fra più soggetti, consentendo così l’introduzione nel sistema informativo e contrattuale di proposte di contratto acquisite da soggetti non autorizzati al trattamento dei dati personali e all’accesso nei sistemi della Società; 

  2. Violazione degli artt. 5, par. 2, 24, par. 1 e 25 del GDPR per aver omesso di intraprendere, rispetto all’operato scorretto di alcune agenzie che, di fatto, agivano con lo scopo di procacciare contratti della nota società energetica, una efficace azione di contrasto, esercitando (e potendo comprovare) in maniera piena e consapevole, le proprie attribuzioni, alle quali corrispondono i doveri di accountability e di privacy by design (attraverso elementi di prevenzione, funzionalità, sicurezza dei sistemi nonché trasparenza del trattamento e centralità dell’interessato); 

  3. Violazione dell’art. 28 del GDPR per (i) da un lato, aver stipulato dei contratti con le proprie agenzie che prevedono in maniera formalistica una ripartizione di responsabilità non rispondente alla concreta articolazione della filiera del trattamento e carente sotto il profilo degli obblighi di controllo in capo al titolare del trattamento e (ii) dall’altro, per non aver stipulato (o curato che fossero stipulati) i necessari atti giuridici con le società sopra menzionate.

Il provvedimento che dispone la sanzione risulta particolarmente importante, soprattutto a seguito della nota sentenza del Tribunale di Roma, che ha sempre riguardato la società energetica. Il Garante, infatti, pone una maggior attenzione agli aspetti sostanziali della vicenda, più che a quelli formali (“Nonostante le argomentazioni della Società si siano concentrate in massima parte (70 punti su complessivi 129) su aspetti di legittimità formale dell’istruttoria anziché sulla sostanza degli addebiti, l’Autorità ritiene necessario invertire tale ordine di esposizione concentrando in primo luogo l’attenzione non già sulle ricadute formali dell’indagine del Garante ma su quelle, ben più gravi e sostanziali, che possono derivare da un’inidonea configurazione delle misure di sicurezza a salvaguardia del patrimonio informativo [della società] e dei suoi clienti”).

Da ciò emerge che il Garante non apprezza memorie difensive incentrate sugli aspetti procedurali o di legittimità formale, ma, anzi, pone una particolare attenzione ai soli aspetti sostanziali. Pertanto, nel predisporre le proprie difese le Società dovranno riportare una struttura difensiva particolarmente forte da un punto di vista sostanziale, per evitare un inasprimento delle sanzioni da parte del Garante.

Su questo argomento, può essere interessante: “Infografica sul codice di condotta privacy sul telemarketing e teleselling”.

La CGUE si esprime sul TCF dello IAB Europe chiarendo le disposizioni del GDPR

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) si è recentemente espressa in relazione all’applicazione del GDPR al Transparency & Consent Framework (TCF) elaborato da IAB Europe, la più importante associazione di categoria nel campo della pubblicità digitale a livello mondiale.

Il TCF è uno standard utilizzato dalla maggior parte degli editori, ed influisce sulla modalità di configurazione dei consensi all’installazione dei cookie sulle piattaforme web, attraverso la Consent Management Platform. Per questo motivo cui la decisione della CGUE potrebbe avere un importante impatto sulla pubblicità online.

È interessante notare come la decisione della CGUE si pone in controtendenza con la recente sentenza del 26 aprile 2023 (causa T-557/20) del Tribunale di cui si è parlato nell’articolo “I dati pseudonimizzati non sono sempre dati personali: l’importante chiarimento del Tribunale dell’Unione Europea” e che stabiliva che per qualificare un’informazione come pseudonimizzata o anonima, si dovesse fare una valutazione delle circostanze concrete, volta a verificare se il soggetto che tratta i dati sia in grado di risalire all’identità degli individui a cui questi dati si riferiscono.

  • La decisione dell’Autorità di controllo belga

La decisione della CGUE scaturisce da un provvedimento adottato dall’Autorità di controllo belga adottata in cooperazione con altre autorità di controllo ai sensi dell’art. 60 del GDPR. In particolare, l’Autorità belga ha ritenuto che IAB Europe:

  • agisce come titolare del trattamento del TCF e delle relative operazioni di trattamento dei dati personali, nonostante lo stesso si consideri un responsabile del trattamento dei dati;
  • utilizza erroneamente il legittimo interesse come base per il trattamento dei dati personali nell’ambito del TCF, dove in alcuni casi possono essere trattate anche categorie speciali di dati (violazione degli artt. 5(1)(a), 5(2), 6(1), 9(1) e 9(2) del GDPR); e
  • fornisce informazioni agli utenti non conformi agli artt. 12, 13 e 14 del GDPR.

Successivamente, il 4 marzo 2022, IAB Europe ha presentato un ricorso contro la decisione dell’Autorità di controllo belga al tribunale belga di competenza, il quale, ha sospeso il procedimento ed ha presentato domanda di pronuncia pregiudiziale alla CGUE.

  • Il giudizio davanti alla CGUE

Il giudice del rinvio ha posto due quesiti all’attenzione della CGUE:

  1. se l’articolo 4, punto 1, del GDPR debba essere interpretato nel senso che una stringa composta da una combinazione di lettere e di caratteri, come la TC String, contenente le preferenze di un utente di Internet o di un’applicazione relative al consenso di detto utente al trattamento dei dati personali che lo riguardano, costituisce un dato personale ai sensi della disposizione citata;
  2. se un’organizzazione di settore, nella misura in cui propone ai suoi membri un quadro di norme da essa stabilito relativo al consenso in materia di trattamento di dati personali, che contiene non solo norme tecniche vincolanti, ma anche norme che precisano dettagliatamente le modalità di stoccaggio e di diffusione dei dati personali relativi a tale consenso, deve essere qualificata come titolare del trattamento.

In riferimento alla prima questione pregiudiziale, la CGUE si è espressa stabilendo che la TC String debba essere considerata dato personale, in quanto, associata ad un indirizzo IP, permetterebbe di risalire all’identità dell’interessato. Difatti, secondo la CGUE l’associazione di una stringa composta da una combinazione di lettere e di caratteri, come la TC String, a dati supplementari, in particolare all’indirizzo IP del dispositivo di un utente o ad altri identificatori, consente di individuare tale utente, e quindi, si deve ritenere che la TC String contenga informazioni riguardanti un utente identificabile e costituisca quindi un dato personale. Non ha ritenuto meritevoli di accoglimento le controargomentazioni di IAB, che riteneva che la TC String non potesse considerarsi come dato personale in quanto essa stessa non potrebbe combinare la TC String con l’indirizzo IP del dispositivo di un utente e non disporrebbe della possibilità di accedere direttamente ai dati trattati dai suoi membri nell’ambito del TCF.

In riferimento, invece alla seconda questione pregiudiziale, la CGUE ha ritenuto che IAB Europe debba essere qualificata come contitolare del trattamento se, tenuto conto delle circostanze particolari del caso di specie, essa influisce, per scopi che le sono propri, sul trattamento di dati personali di cui trattasi e determina, pertanto, congiuntamente con i suoi membri, le finalità e i mezzi di un tale trattamento. In particolare, la CGUE non ha ritenuto rilevante la circostanza che IAB Europe non abbia accesso diretto ai dati personali trattati dai suoi membri, in quanto anche in questo caso potrà comunque essere considerata contitolare del trattamento. La contitolarità, tuttavia non potrà estendersi automaticamente ai trattamenti successivi di dati personali effettuati da terzi.

  • Conclusioni

Considerando l’inversione di tendenza rispetto a quanto stabilito in precedenza dal Tribunale dell’Unione Europea, il quadro giurisprudenziale appare confuso e poco chiaro in relazione all’approccio che le società dovranno adottare per essere conformi alla normativa privacy. Sarà quindi necessaria un’attenta valutazione caso per caso in merito alle misure da adottare per assicurare la compliance alle disposizioni in materia.

Su un argomento simile può essere di interesse il seguente articolo: “Cookieless web: verso un mondo senza cookie grazie all’AI?”.

 

Gaming & Gambling

Approvate le nuove regole per il settore del gioco on line e il nuovo bando di concessioni in Italia

Il Consiglio dei Ministri italiano ha approvato il nuovo schema di decreto legislativo che determina il quadro giuridico per il gioco online in Italia, compreso il regime per l’assegnazione delle nuove concessioni per il gioco a distanza.

Il Consiglio dei Ministri italiano ha approvato una riforma sostanziale in materia di gioco a distanza che rappresenta un cambiamento significativo rispetto al passato.

Il decreto legislativo dello Schema di riordino dei giochi è molto complesso, ma le disposizioni più rilevanti possono essere riassunte come segue:

  1. Ci sarà un bando per l’assegnazione di 50 nuove concessioni per il gioco online che, secondo il testo di legge, dovranno essere assegnate entro il 31 dicembre 2024 poiché tutte le concessioni attuali scadranno entro tale data. Sembrano tempi molto stringenti, ma questo è quello che prevede il legislatore;

  2. Il prezzo per ciascuna concessione della durata di 9 anni sarà di 7 milioni di euro a cui si aggiungerà una tassa annuale per la gestione delle concessioni pari al 3% del GGR netto delle imposte sul gioco. Inoltre, gli operatori dovranno investire un importo pari allo 0,2 del loro GGR netto delle imposte sul gioco in campagne di gioco responsabile. I gruppi di società non possono detenere più di 5 concessioni e ciò potrebbe rappresentare un problema in caso di concentrazione o aggregazione di società;

  3. Sono previsti requisiti molto stringenti per soddisfare i criteri di idoneità e le sanzioni potenziali sono aumentate così da rappresentare un deterrente per gli operatori;

  4. Vengono introdotte forti limitazioni ai siti skin / white label poiché ogni operatore dovrà avere un sito web con un nome a dominio italiano e il suo logo mostrato sul sito. Non sono state introdotte disposizioni per consentire skin aggiuntive a fronte del pagamento di un canone;

  5. I Punti Vendita Ricariche (PVR) dovranno essere registrati in un albo specifico e pagare una tassa annuale di EUR100 per negozio. Inoltre, sembra che sia limitata qualsiasi attività di gioco o prelievo di fondi dai negozi;

  6. Sono state introdotte regole più rigorose contro l’offerta di giochi con vincita in denaro in Italia attraverso siti di gioco non autorizzati e senza concessione, anche attraverso l’attuazione di misure di blocco dei pagamenti.

Questo è un riassunto di alto livello dei cambiamenti più rilevanti introdotti. Nelle prossime settimane pubblicheremo aggiornamenti su questioni specifiche.

Sull’argomento, può essere interessante il seguente articolo “La sponsorizzazione degli operatori del gambling e betting sarà nuovamente consentita in Italia?”.

 

Intellectual Property

Il fenomeno dell’upcycling tra moda sostenibile e tutela del marchio

Il fenomeno dell’upcycling (“riuso creativo”) viene adottato da numerosi brand di moda al fine di promuovere una moda sostenibile. L’upcycling permette di riutilizzare capi, accessori, borse e tessuti già presenti sul mercato per creare nuovi prodotti percepiti come di maggiore qualità, così limitando gli sprechi e promuovendo la creatività. Tuttavia, la tendenza a modificare o rimettere a nuovo prodotti di marca, per poi venderli senza l’autorizzazione del titolare del marchio o senza informare adeguatamente i consumatori delle modifiche apportate, può dar luogo a complicazioni legali.

Da ciò deriva una importante complicazione per i brand: è possibile promuovere l’upcycling e contemporaneamente proteggere il proprio marchio?

Secondo una recente indagine di Boston Consulting Group, il valore del second hand nel settore della moda e degli accessori di lusso è già pari al 5% delle vendite totali e crescerà fino ad arrivare al 40% nei prossimi anni. Negli ultimi tempi, di fronte all’attenzione mostrata soprattutto dalle Gen Z e Alpha, si sono infatti moltiplicate le iniziative dei brand legate all’upcycling, dando nuova vita ad articoli delle collezioni precedenti e talvolta modificandoli, lanciando siti web dedicati ai propri capi vintage, offrendo agli utenti la possibilità di rivendere i loro e collaborando con le maggiori piattaforme di reselling come Vinted, Vestiaire e Depop per assicurarsi un maggiore controllo sulle vendite. Così, ad esempio, lo scorso anno Valentino ha lanciato il progetto Valentino Vintage, selezionando sette negozi vintage iconici da Seoul a New York in cui i clienti hanno avuto la possibilità di scambiare i propri abiti Valentino in negozio dando loro una seconda vita e il gruppo Richemont ha stipulato un accordo con il marketplace di lusso Farfetch per la rivendita dei propri gioielli.

Se da una parte il fenomeno dell’upcycling è sicuramente in linea con gli impegni di adottare politiche e comportamenti più sostenibili assunti dalle aziende per rendere la moda più sostenibile e ridurre gli sprechi allungando il ciclo vitale dei prodotti, dall’altra l’emergere di questa nuova tendenza ha sollevato importanti questioni legate alla tutela del marchio e ai diritti di proprietà intellettuale dei brand che hanno visto rielaborare da terzi i propri prodotti.

Dopo il caso di Chanel che aveva citato in giudizio negli Stati Uniti una società che realizzava gioielli e accessori con i bottoni presi dai capi di abbigliamento della celebre maison francese, è di questi giorni la notizia che Levi’s ha promosso un contenzioso oltreoceano nei confronti della società Coperni per la presunta violazione del marchio e la vendita di prodotti Levi’s modificati. In particolare, Levi’s contesta sia l’uso da parte di Coperni di linguette in tessuto simili alle proprie sia l’offerta in vendita di prodotti Levi’s “rielaborati” che mantengono l’impuntura registrata Arcuate e il marchio della linguetta di Levi’s, creando un potenziale rischio di confusione tra i consumatori, che potrebbero confondere questi prodotti Coperni con collaborazioni o prodotti con licenza di Levi’s a causa dell’uso non autorizzato del marchio. Controversie analoghe sono state promosse anche da Nike, Rolex e Ralph Lauren e trovano tutte il proprio fondamento nei diritti esclusivi di marchio e nel principio di esaurimento (o “first sale doctrine” nel diritto americano).

Guardando alla normativa nazionale, con la registrazione del marchio vengono riconosciuti in capo al titolare una serie di diritti, tra cui il diritto di utilizzarlo in via esclusiva e di impedirne l’uso a chiunque non sia autorizzato. Tuttavia, in base al principio di esaurimento del marchio, una volta che il titolare mette i beni in commercio non potrà più opporsi ad ulteriori e successive commercializzazioni degli stessi sul mercato. L’art. 5 c.p.i. prevede infatti che “1. Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo”. Il comma 2 stabilisce però che tale principio non trova applicazione “quando sussistano motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio. […]”. In tali casi, infatti, i consumatori potrebbero essere portati a credere che le modifiche apportate al prodotto siano state autorizzate dal titolare del marchio, facendo venir meno la funzione distintiva e di garanzia tipica della privativa in questione.

Per tale motivo alcuni servizi – quali, ad esempio, i servizi di riparazione o di pulizia di un prodotto – non sollevano particolari complicazioni rispetto all’ambito di applicazione del principio di esaurimento, permettendo quindi a un terzo di fornire tali servizi senza bisogno di ottenere l’autorizzazione del titolare del marchio. Diversamente, quando una terza parte interviene sui prodotti recanti il marchio apportandovi una modifica materiale in modo permanente con lo scopo di rivenderli (ad esempio, cambiandone il calore, aggiungendo applicazioni e dettagli o combinando il capo con elementi di altri brand), l’applicazione del principio di esaurimento è da ritenersi esclusa.

La giurisprudenza ha interpretato il concetto di alterazione o modificazione in senso ampio, ricomprendendovi il riconfezionamento, la rietichettatura, e addirittura la rivendita secondo modalità di presentazione pregiudizievoli della notorietà del marchio. In tale prospettiva qualsiasi modifica alle modalità di presentazione del prodotto, ancorché limitata alla confezione o alla immagine complessiva, può in linea di principio essere vietata dal titolare del marchio (Tribunale di Milano, 28 febbraio 2022 e Tribunale di Torino, 12 maggio 2008).

Secondo un risalente orientamento giurisprudenziale, è stato ritenuto responsabile di contraffazione il soggetto che reimmette sul mercato prodotti da lui modificati, mantenendo tuttavia su di essi il marchio originario (Trib. Milano 21 febbraio 1977: “il potere di uso esclusivo del marchio viene leso da chi manipoli il prodotto contrassegnato ad esempio sostituendone la parte esterna originale (nella specie: il rivestimento esterno degli accendisigari), poiché in tale caso egli estende abusivamente la protezione del marchio sulla parte proveniente dalla sua manipolazione ma non prodotta dalla ditta titolare del marchio, unica avente il diritto di servirsi in modo esclusivo del contrassegno”). Nello stesso senso Trib. Milano 19 maggio 1980, secondo cui “costituisce contraffazione di marchio la rivendita con il marchio originario di prodotti manipolati, dovendosi intendere per manipolazione qualsiasi alterazione (sostituzione, aggiunta, eliminazione) volta a modificare le caratteristiche originarie del prodotto e le modalità di presentazione di esso al pubblico”. Sul punto, rileva anche la decisione del Trib. Milano 18 maggio 2004 secondo cui “nell’ipotesi in cui parti di prodotti originali recanti un marchio vengano inserite da un terzo in nuovi prodotti, il terzo non può invocare il principio dell’esaurimento del marchio che riguarda la diversa ipotesi di ulteriore circolazione del prodotto originale sul mercato dopo una prima lecita immissione”.

Nel caso dei prodotti customizzati o comunque rielaborati, il prodotto è nuovo, autonomo e diverso rispetto a quello immesso sul mercato dal titolare del marchio e, di conseguenza, non da lui autorizzato. Con sentenza n. 1459 del 3 ottobre 2018, il Tribunale di Udine si è pronunciato sulla questione per la prima volta anche sotto il profilo penale, ravvisando in questo fenomeno un’ipotesi di contraffazione di marchio altrui ex articolo 473 c.p.. Il caso aveva ad oggetto la produzione e commercializzazione di spille ottenute dall’assemblaggio di bottoni recanti alcuni marchi figurativi e denominativi di un brand di moda. Parte di questi bottoni erano originali, altri contraffatti. Con riguardo alle spille realizzate con i bottoni contraffatti, il Tribunale di Udine ha ritenuto indubbia la sussistenza del reato, ma ha poi precisato che anche l’impiego di prodotti originali (ovvero, nel caso di specie, bottoni) integra l’elemento materiale del reato. Inoltre, è stato confermato che l’assemblaggio del prodotto finale dia luogo a un articolo del tutto nuovo che, sebbene rimanga contraddistinto dal marchio originale, non è stato prodotto o in ogni caso autorizzato dal titolare di quel marchio. Il Tribunale di Udine ha dunque concluso affermando che l’attività di customizzazione è lesiva della fede pubblica (ovvero il bene tutelato dall’art. 473 c.p.), proprio perché il prodotto nuovo recante il marchio originale risulta idoneo ad ingannare i consumatori rispetto all’origine imprenditoriale del prodotto stesso.

Ancor più recentemente, il Tribunale di Milano ha ritenuto sussistente la contraffazione dei marchi di Airway International Ltd., titolare dei marchi “Dr. Martens” da parte della società resistente che pubblicizzava i celebri stivaletti customizzati attraverso l’aggiunta di borchie, glitter, schizzi di vernice, inserti in tessuto, ecc. e venduti come “modelli unici” a un prezzo superiore rispetto a quello degli articoli originali. Il Tribunale ha ritenuto “che il decreto pronunciato inaudita altera parte debba trovare conferma in quanto, come già osservato in tale sede, non si è verificato l’esaurimento dei diritti di privativa di parte ricorrente sui marchi di cui è titolare, non essendo applicabile tale principio allorché lo stato delle calzature Dr Martens è alterato o modificato dopo l’immissione in commercio da parte di AIRWAIR INTERNATIONAL Ltd (art. 5, co.2 cpi), in assenza dell’autorizzazione di parte ricorrente”. Pertanto, sono stati disposti la descrizione e il sequestro dei prodotti contraffatti e l’inibitoria per la loro produzione, commercializzazione e produzione.

La decisione del tribunale milanese adotta un’interpretazione ancora più ampia del concetto di “alterazione” rispetto alle precedenti e rappresenta sicuramente un risultato importante per la tutela dei brand interessati da questa tendenza, aprendo la strada a nuovi contenziosi. Tuttavia, nello scenario attuale caratterizzato da una sempre maggior attenzione per le tematiche ESG, il fenomeno dell’upcycling impone un bilanciamento tra l’interesse pubblico ad un’economia circolare volta a ridurre gli sprechi e prolungare il ciclo vitale dei prodotti di moda (tradizionalmente destinati ad un consumo poco responsabile) e l’interesse individuale del titolare del marchio a cui sono attribuiti diritti esclusivi. L’instaurazione di un contenzioso su questi temi richiede dunque alle aziende una riflessione più ampia per assicurarsi di non intraprendere azioni che possano essere in contrasto con i propri impegni e campagne in tema di impegno sostenibile ed evitare dunque in ultima istanza un danno d’immagine. Anche per questo motivo, una possibile soluzione già adottata da alcuni brand è quella di lanciare essi stessi l’upcycling dei propri prodotti, in modo da avere il pieno controllo sulla loro trasformazione ed evitare che siano poi terzi a farlo.

Su un argomento simile si veda l’articolo “Come i fashion brand possono promuovere la sostenibilità e proteggere il loro marchio”.

Made in Italy: quali sono le novità introdotte dalla legge n. 206/2023

Lo scorso 11 gennaio 2024, è entrata in vigore la legge 27 dicembre 2023, n. 206, che introduce “disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del Made in Italy” (“Legge sul made in Italy”)

Questo intervento mira a promuovere le produzioni di eccellenze italiane sia sul territorio nazionale sia all’estero, preservando e valorizzando il patrimonio culturale e le radici nazionali, non solo a fini identitari, ma anche per favorire la crescita dell’economia nazionale, coerentemente con le regole di mercato interno dell’Unione Europea.

La legge introduce diverse novità riguardanti i diritti di proprietà intellettuale, tra cui incentivi alla brevettazione delle invenzioni, valorizzazione dell’innovazione e tutela dei marchi di particolare interesse e valenza nazionale.

Al fine di incentivare la brevettazione delle invenzioni, di sostenere la valorizzazione dei processi di innovazione è stato reintrodotto, il Voucher 3I, un incentivo economico, che potrà essere utilizzato da startup innovative e microimprese per l’acquisto di servizi di consulenza relativi alla verifica della brevettabilità di un’invenzione e alla redazione della domanda di brevetto in Italia e all’estero.

A tale fine è stato autorizzato lo stanziamento di 9 milioni di euro per il biennio 2023-2024.

Un’altra novità è stata introdotta in relazione alla tutela dei marchi di particolare interesse e valenza nazionale. L’articolo 7 della Legge sul Made in Italy prevede che, qualora un’impresa, titolare o licenziataria di un marchio registrato da almeno 50 anni, intenda cessare definitivamente l’attività, dovrà darne previa notifica al Ministero delle imprese e del Made in Italy (MIMIT). Il MIMIT avrà la possibilità di subentrare gratuitamente nella titolarità del marchio al fine di prevenire la sua estinzione e garantirne la continuità.

Per i marchi invece non utilizzati da almeno cinque anni, il MIMIT potrà depositare una domanda di registrazione del marchio a proprio nome, al fine di utilizzarlo a favore di imprese che siano interessate ad investire in Italia, o trasferire in Italia la propria attività.

Infine, è di significativo rilievo il capo dedicato alla “tutela dei prodotti Made in Italy”. In particolare, l’articolo 41 della Legge sul Made in Italy prevede che, con decreto del MIMIT, di concerto con il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Nazionale e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sia adottato un contrassegno ufficiale di attestazione dell’origine italiana delle merci. Questo contrassegno potrà essere utilizzato, da solo o congiuntamente con la dizione “Made in Italy” solamente nei casi previsti dallo stesso articolo 41.

Le imprese che producono beni sul territorio nazionale potranno, quindi, su base volontaria, avvalersi del contrassegno sui propri beni, al fine di contrastare in maniera ancora più efficace il fenomeno della contraffazione.

In conclusione, la recente entrata in vigore della Legge sul Made in Italy offre alle aziende italiane un importante quadro normativo per promuovere, tutelare e valorizzare le proprie produzioni. Avvalersi di questi strumenti non solo rafforzerà l’autenticità dei prodotti Made in Italy, ma contribuirà anche a consolidare la reputazione di eccellenza delle aziende italiane nel panorama globale.

Su un simile argomento potrebbe interessarti l’articolo “Italian sounding: quanto vale e come trasformarlo in export made in Italy”.

Di cosa tener conto nel caso di uso di un marchio di colore

L’articolo 7 del Codice della Proprietà Industriale stabilisce che possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni e, in particolare, le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, e, ancora, le combinazioni o le tonalità cromatiche.

Come si evince dal breve estratto che precede, le combinazioni e le tonalità cromatiche sono espressamente considerate registrabili come marchi. Ciò, in quanto non si rilevano in concreto difficoltà particolari dal punto di vista della rappresentazione grafica del segno, che deve essere chiara e precisa.

  • Cosa si intende per marchio di colore?

Il marchio di colore è un segno distintivo, al pari di qualsiasi altro marchio, costituito unicamente da un colore o da una combinazione di più colori, senza ulteriori elementi (parole, numeri, elementi grafici o altro).

Come richiesto rispetto alle altre tipologie, anche il marchio di colore deve presentare i consueti requisiti di validità, ossia la capacità distintiva, la novità, l’idoneità ad essere rappresentato graficamente e la liceità. Ciò, assumendo, ancora prima, che si tratti di un segno idoneo a svolgere la funzione di marchio e, quindi, a contraddistinguere l’origine commerciale del prodotto o servizio contrassegnato.

È possibile registrare il marchio di colore in Italia, nell’Unione Europea e in tutti i Paesi la cui normativa nazionale prevede tale opportunità. Talvolta, nel caso del marchio di colore, la capacità distintiva può essere anche determinata da un intenso utilizzo del segno sul mercato, che porta il pubblico di riferimento ad associare un particolare colore o una combinazione di colori a un determinato prodotto o servizio come proveniente da una specifica impresa.

  • Il marchio monocromatico: criticità

Certamente, le maggiori criticità si rilevano rispetto alla registrazione come marchio di un colore “puro” o monocromatico. È importante considerare, infatti, che la gamma di colori è limitata e si rende necessario, dunque, un bilanciamento tra il diritto ad essere titolari di un marchio di colore con l’interesse generale alla libera disponibilità dello stesso, affinché i colori puri non siano monopolizzati da pochi soggetti che ne vietino l’uso a tutti gli altri operatori economici.

In Italia, si registra la tendenza ad escludere la possibilità di registrare come marchio singole specifiche tonalità cromatiche “per non restringere indebitamente la disponibilità di colori per gli altri operatori che offrono prodotti e servizi analoghi” (Cass. Sent. n. 7245/2008). Orientamento, questo, condiviso anche in sede europea, dove riveste particolare importanza la descrizione del colore stesso o dell’eventuale codice colore di identificazione. In entrambe le sedi esaminate, quindi, l’opportunità di registrare come marchio un colore, pur non essendo esclusa a priori, rimane investita di diverse criticità. Pertanto, è necessario tenere a mente che il criterio da adottare è quello della valutazione caso per caso.

  • Marchi di colore noti: esempi

Nonostante le perplessità rintracciabili in detto scenario, diversi sono i casi di marchi di colore giunti a concessione. Tra questi, si pensi al blu del packaging di una nota azienda statunitense nel settore dei gioielli, alla combinazione dei colori bianco-rosso nota nel settore delle bibite, al rosa associato alla bambola per eccellenza, alla tonalità di giallo che contraddistingue uno dei più amati articoli di cartoleria, ancora, alla tonalità di lillà nota nel settore della produzione di cioccolato e, infine, al colore rosso che tinge le domeniche di molti, tra un rombo e l’altro.

Su un simile argomento può essere d’interesse l’articolo: “Marchio di colore: la scelta strategica delle maisons per far risplendere la propria brand identity”.


La rubrica Innovation Law Insights è stata redatta dai professionisti dello studio legale DLA Piper con il coordinamento di Arianna Angilletta, Matteo Antonelli, Edoardo Bardelli, Carolina Battistella, Carlotta Busani, Giorgia Carneri, Maria Rita Cormaci, Camila Crisci, Cristina Criscuoli, Tamara D’Angeli, Chiara D’Onofrio, Federico Maria Di Vizio, Enila Elezi, Alessandra Faranda, Nadia FeolaLaura Gastaldi, Vincenzo GiuffréNicola Landolfi, Giacomo Lusardi, Valentina Mazza, Lara Mastrangelo, Maria Chiara Meneghetti, Deborah Paracchini, Maria Vittoria Pessina, Tommaso Ricci, Miriam Romeo, Rebecca Rossi, Roxana Smeria, Massimiliano TiberioGiulia Zappaterra.

Gli articoli in materia di Telecommunications sono a cura di Massimo D’Andrea, Flaminia Perna e Matilde Losa.

Per maggiori informazioni sugli argomenti trattati, è possibile contattare i soci responsabili delle questioni Giulio Coraggio, Marco de Morpurgo, Gualtiero Dragotti, Alessandro Ferrari, Roberto Valenti, Elena Varese, Alessandro Boso Caretta, Ginevra Righini.

Scoprite Prisca AI Compliance, il tool di legal tech sviluppato da DLA Piper per valutare la maturità dei sistemi di intelligenza artificiale rispetto alle principali normative e standard tecnici qui.

È possibile sapere di più su Transfer, il tool di legal tech realizzato da DLA Piper per supportare le aziende nella valutazione dei trasferimenti dei dati fuori dello SEE (TIA) qui e consultare una pubblicazione di DLA Piper che illustra la normativa sul Gambling qui, nonché un report che analizza le principali questioni legali derivanti dal metaverso qui, e una guida comparativa delle norme in materia di loot boxes qui.

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