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26 aprile 202337 minuti di lettura

Innovazione e diritto: le novità della settimana

26 aprile 2023
Speciale Milano Design Week - Rubrica “Design with Law”

Questa settimana troverete sei articoli della rubrica “Design with Law”, che i professionisti del Dipartimento Intellectual Property & Technology di DLA Piper hanno scritto in occasione dell’apertura della 61esima edizione del Salone del Mobile, esplorando le ultime novità e le problematiche giuridiche in materia di design.

Buona lettura!

 

Quali diritti IP per la tutela del layout di un negozio?

Analizziamo i diversi diritti di proprietà intellettuale che possono essere concessi per la tutela del layout di un negozio e come tutelarli al meglio.

In questo primo articolo, vediamo quindi quali diritti della proprietà intellettuale possono essere concessi per la tutela del layout di un negozio, che sempre più diventa uno degli elementi distintivi di un brand e della sua immagine.

Che vi troviate a Milano, New York o Shanghai, avrete infatti notato che quando si entra in un negozio per acquistare prodotti di alcune note aziende multinazionali, si tratti di smartphone, borse o gioielli, il layout e il look and feel del negozio sono identici, grazie all’uso dei medesimi arredi, nella stessa disposizione e negli stessi colori. Infatti, insieme alla confezione dei prodotti, al profumo del negozio e all’abbigliamento del personale di vendita, il layout del negozio è ormai una delle caratteristiche su cui la maggior parte delle aziende fa affidamento per costruire il riconoscimento del proprio marchio.

Il tema è stato di recente affrontato anche dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 8433/2020 ha posto fine all’annosa saga tra due brand di make-up vertente proprio sull’asserita imitazione dell’interior design dello store e ha colto l’occasione per ripercorrere le diverse categorie di diritti IP attraverso cui questo può essere protetto.

Il giudizio era stato promosso nel 2013 da una azienda cosmetica contro una concorrente per violazione del diritto d’autore e concorrenza sleale, in quanto quest’ultima avrebbe copiato il layout del suo negozio (ad esempio, l’ingresso open space con schermi digitali, la combinazione di colori bianco/nero/rosa/viola, gli effetti di illuminazione da discoteca, le dimensioni, le proporzioni, i materiali e la posizione dei mobili). In seguito, le richieste della parte attrice sono state per lo più accolte sia in primo grado che in appello, e il caso è arrivato fino alla Corte Suprema.

Le protezioni fornite alla tutela del layout di un negozio

  • Protezione fornita dal copyright

Secondo parte attrice, l’allestimento del negozio non può essere considerato come “opera architettonica” ai sensi dell’art. 2, n. 5 della legge sul diritto d’autore in quanto il progetto architettonico non disegnava un layout definito e fisso da riprodurre in tutti i propri concept store, ma poteva essere considerato solo come un “design industriale” costituito dalla combinazione dei singoli componenti del negozio ai sensi dell’art. 2, n. 10 della legge sul diritto d’autore, che richiede l’ulteriore requisito del “valore artistico” per poter accedere alla tutela autorale.

La Suprema Corte ha quindi osservato innanzitutto che l’architettura è per definizione una forma di “arte applicata”, ma ciò non significa che l’opera per la quale si richiede la protezione del diritto d’autore debba essere fisicamente incorporata e inseparabile dall’edificio per il quale è stata progettata. Inoltre, riconoscendo che l’architettura è considerata comprensiva anche del design degli interni, la Corte ha ritenuto che il progetto del negozio della parte attrice avesse una forma espressiva specifica che includeva “una serie di elementi, la cui scelta, coordinamento e disposizione mostravano il carattere creativo richiesto“. Analoghe conclusioni sono state raggiunte anche in relazione agli interni e al layout di alcune imbarcazioni, cui è stata riconosciuta tutela ai sensi dell’art. 2, n. 5 l.d.a. (Tribunale di Venezia, 17 febbraio 2018 e Tribunale di Genova, 27 giugno 2018).

Nell’affrontare la questione della tutela delle opere architettoniche, la Corte di Cassazione ha inoltre espressamente citato la decisione Cofemel della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-683/17, 12 settembre 2019) per esaminare i requisiti della protezione del diritto d’autore secondo la legge italiana. Infatti, ha osservato che, purché possa essere qualificata come “opera” e tale opera presenti un sufficiente grado di originalità, non sono necessari altri requisiti per accedere alla tutela del diritto d’autore. Secondo la Suprema Corte, infatti, “la CGUE ha confermato che, per quanto riguarda la tutela del diritto d’autore, il requisito dell’originalità, ossia la sussistenza di una forma espressiva ben definita e creativa che rifletta le libere scelte e la personalità del suo autore, non implica anche che l’opera crei un effetto visivamente rilevante dal punto di vista estetico, come invece è richiesto ai fini della tutela del design“.

Di conseguenza, la Corte ha chiarito che l’effetto estetico e visivo di un articolo o di un’opera non deve essere considerato ai fini della tutela autorale, per la quale è sufficiente che rifletta la personalità dell’autore, ma potrà eventualmente rilevare per l’accesso al diverso regime di tutela del design. Tuttavia, va sottolineato che poiché ha qualificato il layout del negozio come “opera architettonica” e non ha applicato l’art. 2, n. 10 l.d.a., la Corte non si è pronunciata definitivamente sulla conformità del “valore artistico” alla Direttiva InfoSoc, che resta tuttora una questione devoluta al legislatore italiano.

  • Protezione del design

Ad oggi, numerose altre società, dalle maison di moda a rinomate squadre di calcio, hanno registrato il layout delle proprie boutique come design, sia a livello nazionale che europeo. Tali registrazioni spesso includono non solo l’aspetto generale del concept store in questione, ma anche altri elementi caratteristici, come le decorazioni interne del negozio, la forma e la posizione di specifici mobili, nonché l’ingresso e la facciata esterna del negozio.

Per quanto riguarda la controversia tra le due aziende della cosmetica, seguendo direttamente le conclusioni raggiunte in Cofemel e già enunciate nel leading case Flos-Semeraro deciso sia dalla CGUE (C-168/09) che dal Tribunale di Milano (sentenza del 12 settembre 2012, n. 9906), la Corte di Cassazione ha riconosciuto la possibilità di cumulo tra la tutela del diritto d’autore e quella del design, in quanto soggette a requisiti e finalizzate a scopi diversi. Infatti, mentre la tutela del design è volta a proteggere oggetti che, pur essendo nuovi e dotati di carattere individuale, hanno un’utilità e sono destinati alla produzione di massa, ma solo per un tempo limitato sufficiente a recuperare gli investimenti per la creazione di tali oggetti, la tutela concessa dal diritto d’autore ha una durata significativamente più lunga ed è riservata agli oggetti che presentano un grado di creatività più elevato.

Pertanto, la circostanza che la società attrice abbia registrato il layout del suo negozio come disegno o modello comunitario non impedisce che lo stesso layout concettuale sia tutelato dal diritto d’autore. Tuttavia, in questo caso la società non ha fatto valere le sue registrazioni di design e la Corte non ha quindi dovuto decidere sulla questione della violazione del design.

  • Protezione del marchio

Come ricordato anche dalla Suprema Corte, un particolare layout di una boutique può essere protetto anche come marchio. Infatti, nel 2014, nella causa (C-421/13) la Corte di Giustizia ha stabilito che una rappresentazione che raffigura il layout di un negozio attraverso un insieme di linee, curve e forme, può accedere alla tutela del marchio a condizione che (i) la rappresentazione sia in grado di distinguere i prodotti o i servizi interessati e (ii) il layout raffigurato si discosti in modo significativo dalle norme o dagli usi del settore del commercio al dettaglio interessato. Con questa decisione, la Corte ha anche stabilito che il layout dei flagship store di un produttore di beni può essere legittimamente registrato come marchio anche per i servizi, ma solo nel caso in cui tali servizi “non costituiscano parte integrante dell’offerta di vendita” dei prodotti in questione.

La CGUE ha ulteriormente chiarito che i criteri da valutare per concedere la protezione di un marchio al layout di un negozio non dovrebbero differire da quelli utilizzati in relazione ad altri tipi di marchi. E questo è esattamente ciò che ha fatto la Commissione dei Ricorsi dell’EUIPO quando nel 2016 ha respinto la domanda di marchio di forma per il layout del negozio della stessa società di cosmetica citata precedentemente per difetto di carattere distintivo.

Nella sua decisione, l’EUIPO ha confermato che per valutare la protezione del marchio per il layout di un negozio è necessario esaminare la relativa “combinazione di varie caratteristiche di linee, forme e colori”. Per quanto riguarda il layout degli store in oggetto, la Commissione dei Ricorsi ha infine ritenuto che l’impressione generale del layout del negozio, corrispondente a una forma generale rettangolare, non fosse di per sé in grado di svolgere una funzione distintiva nel design di un negozio di cosmetici, in quanto ciò consente solo “di collocare un gran numero di espositori senza soluzione di continuità, sfruttando così al massimo le pareti laterali”. Inoltre, l’EUIPO ha evidenziato che “i colori utilizzati sono comuni (bianco, nero, grigio) o alludono (per quanto riguarda il colore lilla) al settore della cosmesi”, concludendo che nessuna delle caratteristiche di forma, linea e colori si discostava significativamente, da sola o in combinazione con le altre, dagli usi e dagli standard del settore della vendita al dettaglio di prodotti cosmetici.

  • Concorrenza sleale

In generale, l’imitazione del layout di un concept store di un concorrente nelle sue diverse sfaccettature può configurare anche un atto di concorrenza sleale sotto il profilo dell’imitazione servile, dell’appropriazione di pregi e – se combinata con altri comportamenti imitativi – di concorrenza parassitaria ai sensi dell’art. 2598, nn. 1, 2 e 3 del Codice Civile.

  • Le conclusioni sulla tutela del layout di un negozio

Nella controversia in oggetto, le sentenze di primo grado e di appello hanno ritenuto la società convenuta responsabile di concorrenza parassitaria nei confronti della società attrice, in quanto – oltre all’imitazione del design del negozio – aveva posto in essere diversi altri comportamenti, tra cui l’imitazione (i) dell’abbigliamento della forza vendita, (ii) dell’immagine complessiva dei prodotti venduti, (iii) dell’aspetto delle borse e degli astucci dei prodotti e (iv) dell’intero schema di comunicazione commerciale, che sono stati giudicati eseguiti con il chiaro intento di “seguire costantemente le orme del concorrente“.

Questo caso non è un episodio isolato e una controversia analoga era sorta ad esempio anche tra due società della moda, in relazione a una presunta copia dell’interior design delle boutique. L’eco mediatica che ne è scaturita, sia all’interno che all’esterno dell’arena legale, dimostra l’importanza che il design dei negozi riveste per le aziende, che investono ingenti risorse per progettare e sviluppare un layout che rispecchi il loro stile e diventi un elemento distintivo del brand. Pertanto, le società devono adottare misure adeguate a proteggere il layout dei propri negozi e non ci sarà da sorprendersi se nei prossimi anni sorgeranno altre controversie in materia.

Su un simile argomento può essere interessante l’articolo “La sfida dei marchi di alta moda nel Metaverso – la tutela dei marchi e dei design virtuali“.

 

Legal Design: Un’immagine vale più di mille parole per i concetti giuridici

Il Legal Design come strumento innovativo per veicolare concetti giuridici e renderli immediatamente comprensibili per il grande pubblico.

Con il Legal Design il connubio tra design e legge è sempre più attuale e tangibile. Infatti, non solo la legge rappresenta lo strumento principale per la tutela delle opere di design e dei propri autori, ma anche il design può essere un mezzo per il legislatore (ma soprattutto per chi interpreta le leggi) per veicolare, a chi legale non è, anche i concetti giuridici più complessi.

Già dai primi graffiti preistorici, fino ad arrivare alle più moderne opere di design che vengono esposte ogni anno durante la Design Week milanese, passando per i magnifici affreschi rinascimentali e le opere d’arte più surreali e futuriste del ‘900, gli artisti hanno sempre voluto trasmettere al grande pubblico un messaggio.

Per la stessa ragione, ossia per veicolare concetti giuridici e renderli immediatamente comprensibili e fruibili per il grande pubblico, nasce il Legal Design. Il Legal Design (letteralmente, design della legge) è l’applicazione del design al mondo legale al fine di rendere i sistemi e i servizi legali umano centrici. Si tratta di una materia multidisciplinare che combina tra loro diverse competenze appartenenti ad ambiti disciplinari differenti, se non addirittura antitetici, al fine di rendere i contenuti legali comprensibili e fruibili al destinatario del messaggio stesso.

È la professoressa Margaret Hagan che nel 2013 istituzionalizza il Legal Design come materia di studio, fondando all’interno della Standford University, dove insegna tuttora, il Legal Design Lab e divenendone così la pioniera, nonché il principale punto di riferimento per gli studiosi e gli appassionati della materia. In particolare, Margaret Hagan definisce il Legal Design come “l’applicazione dell’UX design al mondo legale, al fine di rendere i sistemi e i servizi legali più umano-centrici, fruibili e soddisfacenti” per l’utente. Il Legal Design non è, infatti, altro che la combinazione del mondo legale con soluzioni tech e di design, con l’obiettivo di riportare i contenuti legali ad una dimensione terrena, a misura d’uomo, così da essere in grado di comunicare con l’utente finale.

Lo scopo principale del design applicato alla comunicazione di informazioni (e contenuti legali) nasce dall’esigenza di comunicare un messaggio specifico, e di ottenere una risposta desiderata. Rappresentare visivamente le informazioni per creare un significato in modo efficace è una questione di progettualità, deve tenere in considerazione in che modo veicolare un messaggio o un’informazione. Tramite l’utilizzo di elementi visivi è, infatti, possibile comunicare informazioni o concetti al fine di facilitare la comprensione degli stessi coinvolgendo il pubblico di riferimento. Applicando questo concetto al mondo legale, non si tratta solo di redigere o ridisegnare documenti legali, ma di empatizzare con il proprio audience, utilizzando il giusto mezzo e tone of voice per comunicare un contenuto legale.

A tal fine, il Legal Design consente di ridurre la complessità della comunicazione legale, adottando un approccio empirico, rendendo il testo giuridico più comprensibile in termini lessicali (utilizzando il c.d. “plain language”), nonché rivoluzionando il documento tramite l’applicazione di un processo di architettura informativa. Questo permette ai giuristi e ai designer di lavorare insieme al fine di creare contenuti legali che siano user friendly, fruibili e soprattutto comprensibili dal maggior numero di utenti e, in particolare, da coloro che non hanno competenze giuridiche. Come brillantemente afferma la Hagan, il Legal Design fornisce un paio di occhiali (“a new pair of glass”) all’utente finale, per poter leggere i contenuti legali di un documento.

Pertanto, non solo i contenuti sono importanti, ma anche l’architettura del documento e la gestione delle informazioni in esso contenute hanno la medesima rilevanza quando il documento viene letto dal destinatario. Affinché il documento sia effettivamente efficace e abbia il riscontro desiderato, ossia sia facilmente comprensibile da parte dei propri lettori, è necessario quindi adottare un approccio innovativo per giungere ad una dimensione umano-centrica dei contenuti e avvicinare i concetti espressi ai lettori stessi.

Nel Legal Design gli strumenti per raggiungere questo obiettivo sono sicuramente l’utilizzo di icone, colori, tabelle e grafici, nonché link e collegamenti testuali a sezioni, pagine e contenuti esterni. Ma il Legal Design è qualcosa di più profondo; non è sufficiente semplificare e rimodellare la vesta grafica dei contenuti legali per renderli più fruibili e accattivanti, ma è fondamentale comprendere la tipologia degli utenti che ne devono fruire e a cui sono rivolti al fine di capire i loro bisogni ed esigenze, nonché avvicinarsi al loro contesto, culturale e sociale, anche adeguando il tone of voice utilizzato. Ad esempio, a seconda della tipologia di utenti di un determinato servizio, anche individuata sulla base della fascia d’età e del contesto sociale e culturale di appartenenza, deve essere utilizzato un linguaggio specifico – più semplice e colloquiale nel caso di pubblico giovane oppure più formale e tecnico nel caso di utenti professionali – al fine di trasmettere i concetti legali in maniera adeguata e diretta.

Per fare un esempio pratico, basti pensare se abbiamo il “coraggio” o la “voglia” di leggere i termini e condizioni di utilizzo di un social network o di una app prima di accettarle oppure l’informativa privacy di un sito prima di registrarsi e fornire i dati alla società di turno. Molto spesso la risposta è “no” perché ci vuole troppo tempo e ci troviamo davanti l’ennesimo muro di testo incomprensibile con parole sconosciute ai più o comunque concetti troppo difficili da comprendere. Infatti, se per iniziare ad utilizzare uno qualsiasi dei servizi offerti su un sito oppure un’applicazione serve poco più di un minuto, leggere i documenti contrattuali o le relative informative privacy richiede molto più tempo ed attenzione, fintantoché gli utenti decidono di rassegnarsi e passare oltre. Proprio per questo motivo molti utenti accettano condizioni e prestano consensi senza effettivamente aver compreso gli usi consentiti di quel determinato sito internet, social network o app oppure come i loro gestori utilizzano e condividono i dati raccolti. Lo scopo di documenti, quali termini e condizioni generali o informative privacy, dovrebbe tuttavia essere quello di informare gli utenti su chi può fare cosa sul sito o diversa piattaforma a cui fanno riferimento o ancora chi farà cosa con i loro dati personali, ponendo gli utenti nella condizione di attivare determinate funzioni e/o servizi, o ancora di prestare il proprio consenso a questo o quel trattamento, in maniera consapevole.

Il Legal Design è quindi la soluzione a questo problema. Infatti, un approccio user friendly, accompagnato da un layout accattivante, può consentire alle aziende di sfruttare soluzioni innovative per vendere meglio i propri prodotti o servizi e ancora ottenere (e revocare) il consenso degli utenti in maniera dinamica. Ad esempio, permettendo all’utente di prestare o revocare il proprio consenso (ove necessario) al trattamento dei dati, ovvero di modificare le proprie preferenze in maniera semplice, immediata e senza formalità, l’utente è stimolato a rilasciare il proprio consenso in quanto consapevole di poterlo revocare con altrettanta facilità.

Per raggiungere efficacemente questo obiettivo, però, è necessario che entrambe le anime del Legal Design – quella “legal” e quella di “design” – si parlino, ossia che venga coinvolto sia un legale per poter rielaborare e semplificare i contenuti dei documenti, seppur mantenendone il significato ed il valore giuridico, sia un designer che sia in grado di raffigurare con immagini e schemi i concetti legali, senza snaturarne il significato. Non è, quindi, sufficiente limitarsi a rinnovare o rimodellare i documenti legali come procedure, informative, ma anche contratti e atti giudiziari nel più ambizioso dei casi, seguendo un approccio tradizionale, ma è necessario adottare una metodologia innovativa, o meglio un modello di design thinking, accostando – appunto – l’anima legal a quella di design.

In conclusione, dunque, il Legal Design sarà sempre più uno strumento imprescindibile per le società che intendono instaurare un legame più trasparente con i propri utenti. Infatti, può rappresentare la chiave di volta per interpretare in maniera moderna e innovativa i contenuti legali e i relativi concetti giuridici così da avvicinarli anche a chi un esperto del settore non è.

Per saperne di più, puoi anche ascoltare i nostri podcast in cui chiacchieriamo di Legal Design con le personalità più rilevanti in materia: La rilevanza del legal design per le aziende con Stefania Passera.

 

Moda e design: i contratti di co-branding

I contratti di co-branding costituiscono contratti di licenza che hanno un ruolo fondamentale nei settori della moda e del design.

Il co-branding è una strategia di marketing ormai molto diffusa tra le aziende per differenziarsi dai competitor sul mercato e conquistare nuovi segmenti di clientela. Si tratta di una forma di collaborazione tra due o più aziende, regolata da contratto, con cui viene presentato ai consumatori un prodotto o una linea di prodotti recanti i marchi delle aziende che collaborano. Da un punto di vista prettamente giuridico, i contratti di co-branding costituiscono dei contratti di licenza con cui viene disciplinato l’utilizzo congiunto dei segni distintivi delle aziende coinvolte nella collaborazione.

I contratti di co-branding possono essere di svariata natura e coinvolgere attori di qualsiasi settore. Numerosi sono i co-branding tra brand del settore fashion, o tra maison di moda e aziende del settore food & beverage, o ancora tra moda e design. Si tratta di un processo di contaminazione e di esplorazione di nuove soluzioni estetiche.

Come osservato, i contratti di co-branding possono assumere le forme più disparate, estendendosi da semplici cooperazioni a livello comunicativo a più impegnativi accordi commerciali di lungo termine, fino a riguardare anche l’introduzione di nuovi prodotti sul mercato.

Queste forme di cooperazione devono essere regolamentate da accordi ad hoc volti a tutelare i diritti di ciascun brand e a definire i rapporti tra i marchi noti coinvolti che verranno presentati contestualmente al consumatore e che saranno oggetto di attività di promozione, pubblicità e marketing congiunta, dando luogo ad una nuova offerta o ad un’offerta percepita come nuova o comunque diversa dal consumatore.

Ecco che l’attività di co-branding viene definita e regolarizzata da contratti atipici, a prestazioni reciproche, con cui due o più persone giuridiche disciplinano e pianificano l’utilizzo congiunto dei propri segni distintivi. Tali contratti prevederanno la definizione di un marchio c.d. “ospitante o accogliente” e di un marchio c.d. “invitato o secondario“.

È dunque evidente come queste forme di cooperazione vengano realizzate in particolar modo alla luce della loro capacità di riscontrare un significativo grado di riconoscimento fra i consumatori. Tuttavia, è necessario tenere a mente che i contratti di co-branding sono altresì caratterizzati da un’alea di rischio significativa. Infatti, tali accordi hanno necessariamente ad oggetto il coinvolgimento degli elementi e componenti più sensibili dell’attività di impresa. Tra questi, ad esempio, rientrano i segni distintivi e altri diritti di proprietà intellettuale, il know-how, i segreti commerciali e le informazioni riservate, nonché la reputazione degli stessi marchi dell’azienda.

Per tale motivo, nel redigere i contratti di co-branding, dovrà essere posta particolare attenzione a molteplici aspetti. In primo luogo, è fondamentale che tali accordi stabiliscano, fin dal principio, quali siano i reciproci impegni di ciascuna parte e quali siano le misure finalizzate a salvaguardare il patrimonio immateriale e l’immagine commerciale dei soggetti coinvolti. In particolare, questa forma di licenza incrociata, limitata nel tempo e circoscritta alla specifica iniziativa commerciale, dovrà specificare la durata del rapporto in funzione del raggiungimento dello scopo condiviso, eventuali limitazioni sia per il licenziante che per il licenziatario al fine di assicurare il successo dell’iniziativa promozionale, l’esistenza di esclusive (merceologiche, territoriali o di settore), nonché eventuali impegni di non concorrenza, e modalità di tutela dei marchi e procedure per la tutela di nuovi segni distintivi o diritti di proprietà intellettuale utilizzati per o durante il rapporto di co-branding.

Trattasi di aspetti che, soprattutto nel caso di co-branding tra brand noti e quotati sul mercato, risultano evidentemente fondamentali.

I contratti di co-branding rappresentano quindi una strategia di marketing vincente nei settori della moda e design, permettendo alle aziende di creare una nuova e unica esperienza per i consumatori. Nel mercato attuale, caratterizzato da una forte competitività tra le aziende, i contratti di co-branding rappresentano un utile strumento giuridico poiché consentono alle aziende di gestire e regolare con estrema duttilità la collaborazione con un altro brand, oltre a permettere ad aziende operanti in un determinato settore di raggiungere i consumatori di una diversa fetta di mercato, come accade – ad esempio – nei casi di co-branding tra maison di moda e aziende di design.

Su un simile argomento può essere interessante l’articolo “Le collaborazioni della moda con cinema, televisione e cultura: nuove tutele necessarie nei contratti”.

 

Il Green Design e le problematiche del 3D printing

A seguito del report del 2020, ad oggi, l’UE propone una nuova legislazione per il green design e le problematiche sui prodotti creati mediante il 3D printing.

Lo scorso 29 novembre, la Commissione europea ha annunciato una nuova iniziativa al fine di aggiornare le norme europee sulla protezione dei disegni e modelli che costituirà un passo importante verso una maggiore sostenibilità, ciò in quanto una delle ragioni principali della revisione è proprio quella di garantire che il regime di protezione dei disegni e modelli supporti meglio la transizione verso un’economia green e digitale.

Il green design relativo a prodotti e imballaggi ha un impatto importante sulla riduzione delle emissioni di carbonio e contribuisce positivamente ad affrontare l’emergenza climatica. Molte aziende e singoli designer in tutto il mondo stanno già investendo in nuovi e migliori design eco-compatibili. Tra le numerose iniziative, molte riguardano lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti riutilizzabili o realizzati con materiali riciclati.

Anche il Salone del Mobile 2023 si muove in questa direzione: partendo dal Brera District, che quest’anno ospiterà installazioni esclusivamente dedicate alla sostenibilità, fino ad arrivare alla creazione delle “Humble Chairs”, da parte dell’azienda di moda spagnola Loewe, che ha utilizzato solo materiali riciclati, intrecciando tutti questi a mano per comporre una sedia innovativa.

Nell’ambito dei diritti di proprietà intellettuale, i diritti sul design hanno un ruolo rilevante nell’ambito della protezione di nuovi prodotti o tecnologie innovative con riguardo alla sostenibilità. Tuttavia, rispetto ad altri diritti IP, i diritti sul design possono offrire un modo più efficiente, semplice e meno costoso per proteggere questi nuovi prodotti. Tali diritti possono essere particolarmente interessanti per le aziende che operano in settori come la moda, l’ingegneria, l’industria automobilistica e aerospaziale, che ormai da molti anni sono bersaglio di crescenti pressioni in relazione al loro impatto ambientale.

I diritti sul green design vengono messi in discussione quando – al fine di raggiungere un mondo “più sostenibile“– i prodotti vengono realizzati tramite l’uso del 3D printing. Nel dettaglio, si tratta di un file di progettazione assistita da computer, più comunemente noto come “CAD”, che fornisce dati per stampare un modello 2D o 3D, di solito mediante un processo di unione di materiali layer su layer.

Alcuni esperti del settore prevedono che la stampa 3D rivoluzionerà completamente la produzione e la vendita al dettaglio. Tuttavia, da un punto di vista della protezione del design, alcuni esperti hanno rilevato che l’uso della 3D printing può potenzialmente facilitare le violazioni del design.

Anche le istituzioni europee sono intervenute sul rapporto tra stampa 3D e design e, nel report del 2020, hanno concluso manifestando diverse perplessità circa la possibilità che un file CAD, per un disegno 3D, possa essere protetto come “design”.

Secondo l’attuale normativa europea, un disegno o modello protetto deve essere un prodotto fisico, anche se non vi è alcun requisito di permanenza. Pertanto, poiché i programmi per computer non sono qualificabili quali “prodotti”, questi sarebbero esenti da protezione accordata dalla Direttiva 98/71/CE e dal Regolamento 2002/6/CE, ossia le principali legislazioni in tema di design e modelli nell’Unione Europea. A questo proposito, la Commissione europea propone di ridefinire i termini di “disegno” e “prodotto”, al fine di proteggere questi dai progressi tecnologici, che potrebbero rendere incerta la protezione e trasparenza delle stesse creazioni.

Un’altra preoccupazione sollevata con il report sulla stampa 3D concerne l’uso della scansione come strumento per copiare e modificare un disegno esistente. Ci si chiede se la scansione possa costituire un uso illecito da parte di un terzo di un disegno/modello e conseguentemente se possa essere tutelata ai sensi dei diritti di proprietà intellettuale. Con il report è stato osservato che la protezione del disegno dipenderebbe dalle caratteristiche dello stesso o dal tempo impiegato per produrre il duplicato. Ad ogni modo è chiaro che se la scansione e la stampa 3D consentono di riprodurre facilmente e rapidamente anche disegni complessi, il quadro normativo dell’UE in materia di disegni e modelli dovrebbe prevedere una protezione anche contro questo tipo di uso.

Sul punto, la Commissione ha proposto di limitare l’eccezione “per uso personale” aggiungendo un requisito di compatibilità con le pratiche commerciali leali e il normale sfruttamento di un disegno o modello.

Attualmente la legislazione europea prevede alcune eccezioni all’Art. 20 del Regolamento 2002/6/CE: (a) per uso privato e commerciale, che consente la copia del disegno o modello a fini non commerciali; (b) per gli atti compiuti ai fini sperimentali e; (c) atti di riproduzione a fini didattici o di citazione, purché tali atti siano compatibili con la corretta prassi commerciale, non pregiudichino indebitamente l’utilizzazione normale del disegno o modello e comportino l’indicazione della fonte.

Ad ogni modo, le proposte vanno oltre e ampliano l’elenco dei diritti esclusivi del titolare del disegno o modello. Esse introducono nuovi diritti esclusivi, in particolare il diritto di impedire “la creazione, il download, la copia e la condivisione o la distribuzione a terzi di qualsiasi supporto o software che registri il disegno o modello allo scopo di consentire la realizzazione di un prodotto [in cui il disegno o modello è incorporato o a cui il disegno o modello è applicato]”.

In conclusione, è pertanto possibile affermare che grazie a questa nuova proposta da parte dell’UE, i disegni e modelli creati tramite 3D printing saranno dotati di una protezione giuridica certa, incentivando così sempre più artisti a muoversi verso il green design.

Su un simile argomento, può essere interessante l’articolo “Come il fashion può promuovere la sostenibilità e proteggere il marchio”.

 

Il design generativo creato dall’AI e la sua protezione ai sensi della normativa sui disegni e modelli

I sistemi di intelligenza artificiale (AI) stanno creando forme di design generativo, ma possono essere oggetto di protezione ai sensi della normativa su disegni e modelli?

I sistemi di AI stanno trasformando il settore creativo e il mondo del design, con lo sviluppo del cd. design generativo, non fa eccezione. Grazie alla capacità di elaborare enormi quantità di dati in tempo reale, l’AI può aiutare i designer a creare prodotti più innovativi, funzionali e sostenibili. Al contempo, questa rivoluzione tecnologica impone di adattare la normativa in materia di disegni e modelli a criticità e problematiche mai considerate prima per consentire la protezione del design generativo creato dall’AI.

AI e Design: un connubio vincente

Mai come quest’anno il Salone del Mobile di Milano è stato costellato da progetti fortemente caratterizzati dall’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale: da tappeti-opere d’arte in continua trasformazione, a macchine sensoriali in cui l’AI, dopo aver analizzato i gusti e le preferenze della persona, crea una fragranza personalizzata e acquistabile al momento. Al rapporto tra AI e uomo, natura e oggetti è stata poi dedicata la mostra Design After Generation, in cui sono stati indagati temi fortemente attuali quali l’evoluzione tecnologica, la sostenibilità e il sempre più massiccio utilizzo dell’intelligenza artificiale nei settori creativi.

A ben vedere, a differenza di altri ambiti, il designer utilizza da tempo nella sua attività quotidiana software di vario tipo, come programmi CAD, software di elaborazione di immagini o programmi che predispongono modelli per la stampa 3D. In questo ambito, quindi, l’utilizzo di ausili “artificiali” per l’opera del creativo è la norma e anche la letteratura giuridica ha sempre ritenuto che, finché il software è uno strumento di lavoro, una sorta di pennello 2.0, il designer che lo utilizza resta innegabilmente l’autore dell’opera.

Oggi, tuttavia, grazie ai sistemi di AI, ai software più tradizionali si affianca il design generativo, che permette di generare una gamma di soluzioni che soddisfano parametri predefiniti, indicati di volta in volta dal designer stesso. Un esempio in questo senso è la sedia “A.I. Chair”, presentata al Salone del Mobile di Milano 2019. In quell’occasione, lo sforzo congiunto del produttore di arredi Kartell, del designer francese Philippe Starck e dell’azienda americana Autodesk (software house con un focus sul design generativo), aveva permesso la creazione di una sedia elaborata e progettata interamente da un sistema di AI. Scopo di tale progetto era quello di creare una sedia compatta, resistente ed esteticamente in linea con i canoni estetici di Kartell e Stark, utilizzando al tempo stesso il minor quantitativo di materiale possibile.

Il risultato finale ha soddisfatto le aspettative, ma ha suscitato una serie di perplessità e domande. E infatti, la distanza di un sistema AI di questo tipo e la tecnologia precedentemente nota è notevole e pone, tra l’altro, svariate questioni giuridiche.

La protezione delle opere del design generativo realizzate dall’AI

Nel nostro ordinamento, la protezione dei disegni e modelli è subordinata al rispetto di due requisiti fondamentali: (i) la novità, con ciò intendendosi che un disegno o modello è nuovo se nessun disegno o modello identico è stato divulgato anteriormente alla data di deposito della domanda di registrazione; e (ii) il carattere individuale, che richiede che l'impressione generale che il disegno suscita nell'utilizzatore informato (i.e., il soggetto dotato di una conoscenza media di un certo settore) differisca in modo significativo dall'impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno o modello precedentemente divulgato al pubblico.

In questo contesto, l'uso di software di AI nella progettazione del designer non sembra porre particolari problemi in termini di proteggibilità del disegno, tanto più che la legge non è interessata a come il modello sia venuto ad esistenza. Come ha sottolineato la dottrina, “la privativa, infatti, non è rivolta a tutelare lo sforzo creativo del designer come tale. Conta il risultato oggettivamente conseguito e come questo si rapporta al patrimonio delle forme pre-esistenti (…) La privativa per modello appare perciò rivolta a tutelare (più che gli interessi del designer) le ragioni dell'impresa, che investe risorse e assume rischi nello sviluppo del prodotto e soprattutto nelle fasi successive della produzione e della commercializzazione” (cfr. Philipp Fabbio, Intelligenza Artificiale e disciplina dei disegni e modelli, in Rivista di Diritto Industriale, 2021).

In altri termini, a differenza di quanto accade per il diritto d’autore, i requisiti della novità e del carattere individuale non sembrano di per sé richiedere un intervento umano qualificato o creativo.

La qualifica di autore

Altra annosa questione che si pone in materia di AI e disegni e modelli è quella dell’individuazione dell’autore, a cui consegue la titolarità dei diritti di patrimoniali e morali sul disegno/modello.

Fino ad oggi, le questioni più ricorrenti circa la titolarità di un disegno o modello sono state le ipotesi in cui nel processo creativo sono coinvolti designer con ruoli diversi e, soprattutto, la più ricorrente situazione in cui il design sia realizzato in esecuzione del rapporto di lavoro (o su commissione). In quest’ultimo caso, i diritti patrimoniali spettano di regola al datore di lavoro ex art. 38, comma 3 c.p.i., mentre il diritto morale si limita – eventualmente – alla menzione (facoltativa) dell’autore nella domanda di registrazione.

Potrebbe invece porre qualche problema ulteriore l’individuazione dell’autore nel caso in cui il design sia assistito da un sistema di AI, che svolge autonomamente attività complesse. In altri termini, il designer resta l’autore del disegno o all’AI (più correttamente, alla software house e/o allo sviluppatore) dovrebbe essere riconosciuta una parte dei diritti patrimoniali sull’opera?

In linea di principio, la dottrina ad oggi ritiene che la soluzione di massima più aderente alla realtà della progettazione industriale e più in linea con il dato normativo sia il riconoscimento della qualità di autore al designer che utilizza il sistema di IA e/o interviene a valle nel selezionare o validare i prodotti realizzati dall’AI, eventualmente apportando modifiche migliorative.

Ciononostante, non si esclude che, quando più individui contribuiscono alla realizzazione dei disegni o, più generalmente, alla progettazione, si renderà necessario valutare la possibilità che essi si qualifichino come co-autori. Di conseguenza, anche il programmatore potrebbe, in linea teorica, qualificarsi come co-autore, perlomeno nei casi di collaborazione diretta con il designer utilizzatore del sistema.

In conclusione, una corretta individuazione dell’autore è fondamentale per consentire di ottenere la protezione dell’opera di design generativo e richiede di tenere in considerazione di volta in volta le peculiarità del caso di specie e del processo creativo/produttivo, con particolare riferimento all’input iniziale, alla revisione finale e alle attività di selezione e validazione di quanto prodotto dal sistema di AI.

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La protezione delle opere di design e il loro utilizzo nelle vetrine dei negozi

È sempre più frequente imbattersi in opere di design nelle vetrine dei negozi di alta moda, calzature o gioielleria: ma qual è la protezione accordata a tali opere dal diritto della proprietà intellettuale?

Le vetrine dei negozi giocano un ruolo cruciale nella comunicazione tra brand e potenziale cliente. Non devono soltanto limitarsi a trasmettere i valori in cui il marchio si identifica e le novità di una specifica stagione, ma è necessario che anche il loro allestimento sia studiato in maniera attenta e strategica per catturare i potenziali acquirenti. L’utilizzo di opere di design da parte dei visual merchandiser nelle vetrine dei negozi ha proprio queste finalità.

Nelle case di alta moda il compito di allestire le vetrine, che risiede in gran parte nello sfruttamento della percezione sensoriale del consumatore, è affidato ai visual merchandiser. Tali figure si occupano di creare vetrine di successo, grazie a uno studio costante delle ultime tecniche di visual display.

Assai frequente nell’haute couture è la scelta di inserire, come parte dell’allestimento, opere di design affiancate a capi di abbigliamento, calzature o gioielli, in modo tale che l’accostamento di due oggetti preziosi ne accentui ancora di più l’unicità. Così facendo, si rinforza anche il legame tra moda e design, creando una sinergia che trova la sua massima espressione durante la Design Week.

E benché sovente vengano stretti accordi di co-branding per suggellare il rapporto di collaborazione tra i marchi, vi è stato recentemente un caso in cui l’utilizzo di un’opera di un celebre artista come parte dell’allestimento delle vetrine da parte di una nota catena di abbigliamento, sia avvenuto senza il suo consenso. In un altro caso ancora, una casa di moda canadese è stata accusata di aver violato i diritti d’autore su un’opera creata da un noto produttore di giocattoli, esponendone nelle proprie vetrine una riproduzione pressoché identica sottoforma di scultura.

Il primo caso ha visto l’artista e writer britannico Banksy censurare l’utilizzo, avvenuto senza il suo consenso, di una delle sue principali opere da parte di una nota catena di abbigliamento, la quale ha esposto il fumetto all’interno delle proprie vetrine. La vicenda è sorta a valle della pubblicazione di un post su Instagram dall’account dell’artista, a cui il brand di moda ha prontamente replicato. Infatti, tramite i propri legali, quest’ultimo ha affermato di aver stretto un accordo con una società terza cui l’artista aveva dato in licenza la facoltà di commercializzare e utilizzare l’opera in questione. La vicenda è ad oggi ancora aperta, ma impone senz’altro una riflessione circa l’importanza di regolare l’utilizzo di opere d’arte e di design come parte della scenografia delle vetrine.

Il secondo caso ha coinvolto invece, da un lato, una nota casa di moda, la quale con l’aiuto dei propri designer interni ha creato una scultura tubolare di colore viola da esporre nelle vetrine dei propri negozi fisici in Canada e in California, e, dall’altro lato, una società produttrice di giocattoli, che aveva in passato creato un gioco avente un design simile. Quest’ultima ha citato in giudizio il brand di moda dinnanzi alla Corte federale della California, lamentando la violazione dei propri diritti d’autore sull’opera. Inoltre, la società ha ritenuto che la maison si sia avvalsa di tale riproduzione quale strumento per attrarre potenziali clienti e incrementare i propri profitti.

Questo caso, al momento ancora pendente, offre l’occasione per affrontare il tema della tutela delle opere di design e il cumulo di protezione offerto nei loro confronti dal legislatore e riconosciuto a più riprese dalla giurisprudenza. Infatti, esse possono trovare tutela, in primo luogo, ai sensi della legge sul diritto d’autore e, in particolare, ai sensi dell’articolo 2 n. 10 l.d.a., che annovera tra le opere protette quelle del disegno industriale che presentino carattere creativo e valore artistico e, in secondo luogo, possono essere registrate come disegni o modelli. A tali strumenti si affianca poi quello della tutela del marchio.

Per quanto concerne la tutela autorale, se, da un lato, con riferimento al requisito del carattere creativo si ritiene sufficiente provare che l’autore abbia fornito un apporto individuale nella creazione dell’opera che esprima la sua personalità, dall’altro, il requisito del valore artistico è aspramente dibattuto. In primo luogo, è opportuno rammentare che tale quid pluris non è previsto in maniera armonizzata, bensì soltanto in alcuni stati, tra cui l’Italia, come dimostrato anche dalla celebre pronuncia Cofemel del 2019 della Corte di giustizia europea (C-683/17 – Cofemel – Sociedade de Vestuário SA). Pertanto, rifacendosi all’opinione condivisa dalla nostra giurisprudenza, si ritiene che tale requisito sussista laddove vi siano degli indici oggettivi, quali il riconoscimento da parte di ambienti culturali e istituzionali del prodotto, la dimostrazione della sussistenza di qualità estetiche ed artistiche dimostrate dall’esposizione in mostre, musei o attraverso la pubblicazione su riviste specializzate, l’attribuzione di premi e così via.

Un altro strumento è quello della registrazione come disegni o modelli. Per godere di tale tutela, che dura cinque anni dalla data di registrazione ed è rinnovabile per un numero massimo di cinque volte, è sufficiente provare che i prodotti siano dotati di novità e di carattere individuale. È altresì prevista una protezione più esigua, di tre anni dalla data di divulgazione del prodotto al pubblico per la prima volta, accordata ai disegni e ai modelli non registrati che siano nuovi e abbiano carattere individuale. Tuttavia, la data di divulgazione, così come la prova della contraffazione, non sono sempre elementi facilmente dimostrabili.

Su un simile argomento può essere interessante l’articolo “Moda e design: i contratti di co-branding”.


La rubrica Innovation Law Insights è stata redatta dai professionisti dello studio legale DLA Piper con il coordinamento di Arianna Angilletta, Giordana Babini, Carolina Battistella, Carlotta Busani, Giorgia Carneri, Maria Rita Cormaci, Camila Crisci, Cristina Criscuoli, Tamara D'Angeli, Chiara D’Onofrio, Federico Maria Di Vizio, Enila Elezi, Chiara Fiore, Emanuele Gambula, Laura Gastaldi, Vincenzo Giuffré, Filippo Grondona, Nicola Landolfi, Giacomo Lusardi, Valentina Mazza, Lara Mastrangelo, Maria Chiara Meneghetti, Deborah Paracchini, Tommaso Ricci, Rebecca Rossi, Massimiliano Tiberio, Alessandra Tozzi, Giulia Zappaterra.

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