
28 novembre 2025
Antitrust Bites - Newsletter
NovembreL'AGCM estende l'istruttoria nei confronti di Meta per possibile abuso di posizione dominante nel mercato delle app di comunicazione per i consumatori e avvia un procedimento cautelare
Con il provvedimento del 26 novembre 2025, l'AGCM ha ampliato il procedimento istruttorio avviato il 22 luglio 2025 nei confronti di Meta Platforms Inc., Meta Platforms Ireland Limited, WhatsApp Ireland Limited e Facebook Italy S.r.l. (insieme "Meta"), per un possibile abuso di posizione dominante nel mercato delle app di comunicazione per i consumatori, in relazione alle nuove condizioni contrattuali di WhatsApp Business Solution Terms, avviando contestualmente un procedimento cautelare.
L'AGCM sostiene che i nuovi Termini della soluzione WhatsApp Business, introdotti il 15 ottobre 2025, potrebbero escludere i concorrenti di Meta AI dal mercato dei servizi di chatbot basati sull'intelligenza artificiale all'interno della piattaforma WhatsApp e potrebbero costituire una violazione dell'articolo 102 TFUE, limitando la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico nel mercato dei servizi di chatbot basati sull'intelligenza artificiale, a scapito dei consumatori.
L'AGCM, parallelamente all'estensione dell'indagine, ha avviato un procedimento per l'adozione di misure cautelari nei confronti di Meta, sostenendo che le modifiche contrattuali, insieme all'integrazione delle nuove funzionalità Meta AI in WhatsApp, potrebbero danneggiare gravemente e irreparabilmente la concorrenza sul mercato, non da ultimo a causa della riluttanza dei consumatori a cambiare le proprie abitudini, ostacolando il passaggio a servizi concorrenti.
Con l'avvio dell'indagine iniziale nel luglio 2025, ora estesa, l'AGCM aveva espresso preoccupazioni in materia di concorrenza in merito alla decisione di Meta di combinare, a partire dal marzo 2025, in Italia e in altri Stati membri dell'UE, il servizio di messaggistica istantanea WhatsApp con il proprio assistente basato sull'intelligenza artificiale, Meta AI. In particolare, le preoccupazioni dell'AGCM riguardano:
- l'abbinamento di Meta AI con WhatsApp: la preinstallazione di Meta AI nell'app WhatsApp, con la possibilità di utilizzo tramite una chat e/o una barra degli strumenti dedicata, sembra conferire a Meta – che è dominante nel mercato dei servizi di comunicazione basati su app – un vantaggio competitivo nel mercato dei chatbot basati sull'intelligenza artificiale. Questa integrazione consente a Meta di trasformare immediatamente oltre 120 milioni di utenti europei di WhatsApp in potenziali utenti di Meta AI, riducendo l'accesso ai servizi concorrenti e spostando la concorrenza dal merito all'imposizione di servizi congiunti;
- l'utilizzo dei dati per l'addestramento dell'IA: Meta potrebbe sfruttare i dati e le interazioni degli utenti di WhatsApp per addestrare il proprio modello di IA, generando effetti di esclusione e rischi di lock-in. L'ampio volume di dati e la crescente personalizzazione delle risposte di Meta AI aumentano la dipendenza degli utenti, riducendo l'attrattiva delle soluzioni concorrenti.
Secondo l'AGCM, tali comportamenti, adottati da Meta sfruttando la sua posizione dominante nel mercato delle app di comunicazione per i consumatori, potrebbero danneggiare la concorrenza nel mercato dei servizi di chatbot e assistenti AI, ostacolando lo sviluppo di alternative competitive, e potrebbero costituire una violazione dell'articolo 102 TFUE.
Rifiuto di interoperabilità delle piattaforme digitali: il Consiglio di Stato conferma l'accertamento dell'abuso di posizione dominante
Con sentenza pubblicata il 29 ottobre 2025, il Consiglio di Stato ha definitivamente confermato la legittimità dell'accertamento da parte di AGCM dell'abuso di posizione dominante a carico di Google nel caso Android Auto.
Come si ricorderà, con il provvedimento del 27 aprile 2021 (di cui abbiamo parlato nella nostra newsletter di maggio 2021) l'AGCM aveva ritenuto che integrasse un abuso di posizione dominante contrario all'art. 102 del TFUE, il rifiuto di Google di garantire ad un'applicazione sviluppata da un'impresa terza, attiva nel settore della mobilità elettrica, l'interoperabilità con la propria piattaforma digitale Android Auto. Il provvedimento era stato confermato dal TAR Lazio con una sentenza resa nel 2022, che Google ha appellato.
Nell'ambito del giudizio di appello, il Consiglio di Stato ha ritenuto necessario sollevare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, che si è pronunciata a febbraio con una discussa sentenza, di cui abbiamo parlato nella nostra newsletter di marzo 2025.
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato, recependo le indicazioni fornite dalla CGUE, ha consolidato alcuni importanti principi del diritto antitrust nel settore digitale, affermando che:
- il principio affermato dalla sentenza Oscar Bronner, secondo cui la necessaria condizione affinché un'impresa in posizione dominante sia tenuta a garantire ai suoi concorrenti l'accesso a un'infrastruttura proprietaria risiede nella indispensabilità dell'accesso all'infrastruttura per competere, è applicabile solo laddove l'infrastruttura sia sviluppata dall'impresa in posizione dominante unicamente ai fini della propria attività e non si applica quindi alle piattaforme digitali di natura "aperta", il cui scopo è di fungere da strumento per i prodotti (app) realizzati da soggetti terzi;
- l'interoperabilità con le piattaforme "aperte" deve essere dunque garantita non solo se l'accesso ad essa sia "indispensabile" per competere, ma anche laddove sia semplicemente idoneo a rendere più attraente per i consumatori l'applicazione sviluppata da un'impresa terza;
- il rifiuto di garantire l'interoperabilità può essere legittimamente opposto dall'impresa dominante se questa dimostri che l'interoperabilità possa compromettere l'integrità della piattaforma o la sicurezza del suo utilizzo o sia impossibile per altre ragioni tecniche;
- al di fuori di tali situazioni, l'impresa in posizione dominante deve garantire l'interoperabilità della propria piattaforma con le app delle imprese terze che ne fanno richiesta, sviluppando se dal caso i template necessari, ponendo in tal caso a carico dell'impresa richiedente il pagamento di un corrispettivo economico equo e proporzionato.
La decisione del Consiglio di Stato, dunque, ha definitivamente confermato l'accertamento della condotta abusiva compiuto dall'AGCM, accogliendo tuttavia parzialmente l'appello di Google per quanto concerne taluni vizi nella quantificazione della sanzione, su cui l'Autorità dovrà ora rideterminarsi.
L'AGCM chiude con impegni il procedimento avviato nei confronti di Google per pratiche commerciali scorrette in materia di consenso relativo ai dati personali
Con il provvedimento del 4 novembre 2025, l'AGCM ha chiuso con impegni il procedimento avviato nel luglio dell'anno scorso nei confronti di Google e Alphabet (società a capo del gruppo Google) per una (presunta) pratica commerciale ingannevole ed aggressiva che le società avrebbero realizzato con riferimento alla richiesta del consenso degli utenti al "collegamento" tra i vari servizi offerti da Google.
Nel provvedimento di avvio del procedimento (di cui abbiamo parlato nella nostra newsletter di luglio 2024), si contestava a Google che la richiesta di consenso, finalizzata a permettere l'uso combinato e incrociato dei dati personali dell'utenza tra la pluralità di servizi della società, sembrava omettere (o fornire in modo lacunoso) le informazioni relative:
- al reale oggetto ed effetto che tale consenso avrebbe prodotto sull'uso da parte di Google dei dati personali degli utenti;
- alla varietà e quantità di servizi Google rispetto ai quali può avere luogo un uso "combinato" e "incrociato" dei dati personali degli utenti;
- alla possibilità di modulare e personalizzare il proprio consenso, scegliendo quanti e quali servizi collegare.
Inoltre, in sede di avvio, l'Autorità ha sollevato dubbi circa la conformità con la normativa consumeristica delle condotte tenute da Google nel caso di rifiuto del consenso da parte degli utenti, consistenti: (i) nel blocco – dapprima temporaneo, poi definitivo – dei servizi su cui la richiesta veniva distribuita (i.e., Google Search); e (ii) nella minaccia che alcune funzionalità dei servizi Google sarebbero state limitate o non sarebbero state più disponibili.
Al fine di porre rimedio ai profili di scorrettezza rilevati dall'AGCM, Google si è impegnata a:
- chiarire la finalità e le implicazioni della richiesta di consenso e inserire un riferimento esplicito all'articolo 5, comma 2, del DMA, base normativa della richiesta;
- indicare tutti i servizi che verrebbero collegati in caso di consenso da parte dell'utente;
- modificare le informazioni relative alla perdita di funzionalità dei servizi nelle ipotesi di diniego del consenso, specificando che, in questi casi, la "maggior parte delle funzionalità [dei] servizi continuerà a funzionare";
- rendere più esplicita la possibilità di rinviare la decisione sulla richiesta di consenso fino a tre volte, nonché di limitare il proprio consenso solo ad alcuni servizi;
- inviare una comunicazione a tutti gli utenti che hanno già effettuato una scelta in merito al trattamento dei loro dati personali, evidenziando le medesime informazioni che, a valle degli impegni, verranno inserite nelle future richieste di consenso.
L'Autorità ha ritenuto che gli impegni offrissero un concreto e immediato riscontro a tutte le contestazioni mosse in avvio, sia sotto il profilo dell’ingannevolezza che dell’aggressività della pratica ed ha pertanto concluso il procedimento con accettazione degli impegni.
Da rilevare che, interpellata ai sensi dell'art. 27, comma 6, cod. cons., AGCom ha rifiutato di rilasciare il parere richiesto da AGCM ritenendo che il caso riguardi una violazione della normativa sui servizi digitali, ambito di propria competenza quale Coordinatore DSA, riservandosi ogni iniziativa in merito ad eventuali violazioni accertate.
LA CGUE sull'accesso alle dichiarazioni legate ai programmi di clemenza nell'ambito di procedimenti penali
Con la sentenza del 30 ottobre 2025 nella causa C-2/23, la Corte di Giustizia dell’UE si è pronunciata sulla compatibilità con il diritto dell’Unione europea dell’acquisizione nel contesto di un procedimento in sede penale del fascicolo relativo a un’istruttoria avviata dall'autorità nazionale di concorrenza, da parte dei relativi organi giurisdizionali competenti, con particolare riguardo alle dichiarazioni relative a programmi di clemenza e proposte transattive.
La Corte ha altresì esaminato la possibilità che anche i soggetti indagati e altre parti del procedimento possano accedere a tali documenti.
La controversia trae origine da un'istruttoria antitrust volta all'accertamento di un cartello nel settore edilizio in Austria. La condotta oggetto dell'istruttoria antitrust è stata oggetto anche di un procedimento avviato in sede penale, nel contesto del quale il pubblico ministero ha richiesto l’acquisizione dell’intero fascicolo dell’indagine antitrust, comprese le dichiarazioni rese nel contesto di programmi di clemenza e proposte transattive. Le imprese interessate si sono opposte a tale acquisizione, sostenendo che fosse contraria al diritto dell’Unione europea e che la divulgazione di tali dichiarazioni potesse compromettere gli incentivi alla cooperazione con le autorità garanti della concorrenza.
In considerazione dell'opposizione formulata dalle imprese interessate nel contesto del giudizio in sede penale il giudice competente ha sottoposto alla Corte di Giustizia tre questioni.
Con il primo quesito, il giudice ha domandato alla Corte se il diritto dell'UE osta a una normativa nazionale che – come quella applicabile in Austria – consente la trasmissione al pubblico ministero in sede penale del fascicolo dell'istruttoria condotta dell'autorità antitrust nazionale, comprese le dichiarazioni legate ai programmi di clemenza. La Corte ha ritenuto in linea di principio ammissibile la trasmissione di tale documentazione, purché sia fatta in modo da salvaguardare l’effetto utile dell’articolo 101 TFUE, evitando in particolare che l’accesso alle dichiarazioni rese nell’ambito di programmi di clemenza e proposte di transazione finisca per svuotare di significato la tutela loro accordata dal diritto dell’Unione europea.
La seconda questione ha riguardato la possibilità di estendere la tutela accordata dall’articolo 31, par. 3, della Direttiva (UE) 2019/1 – che prevede che l'accesso a dichiarazioni legate a un programma di clemenza o alle proposte di transazione sia concesso solo alle parti oggetto del pertinente procedimento – anche ai documenti utilizzati per illustrare o provare il contenuto delle dichiarazioni. La Corte ha concluso precisando che tale disposizione non si applica all’accesso agli altri documenti contenuti nel fascicolo istruttorio dell'autorità di concorrenza, quali i documenti diretti ad illustrare, concretizzare o provare il contenuto delle dichiarazioni.
Infine, con la terza e ultima questione, il giudice nazionale ha domandato alla Corte di chiarire se la tutela prevista dall'articolo 31, par. 3 della Direttiva 2019/1 osti ad una normativa nazionale che – come quella applicabile in Austria – consente l’accesso alle dichiarazioni rese nell'ambito dei programmi di clemenza e proposte transattive da parte degli indagati in sede penale che non siano gli autori di tali dichiarazioni nonché ai soggetti danneggiati dalla violazione del diritto della concorrenza di cui trattasi richiedenti il risarcimento del danno causato dalla violazione. In risposta a questa questione, la Corte ha operato una netta distinzione, ritenendo che gli indagati possano accedere a tali dichiarazioni soltanto qualora ciò sia strettamente necessario per l'esercizio del loro diritto di difesa, mentre l'accesso deve essere negato ai soggetti danneggiati dalla violazione del diritto della concorrenza che chiedono il risarcimento del danno causato da tale violazione.
Presunta intesa verticale nel mercato dei droni civili sotto la lente dell’AGCM
Lo scorso 29 ottobre, l’AGCM ha reso noto di aver avviato un’istruttoria nei confronti di DJI Europe B.V., leader mondiale nella produzione di droni civili, e di Nital S.p.A., suo importatore in Italia, al fine di accertare l’esistenza di una presunta intesa verticale, in violazione dell’art. 101 TFUE, nel settore dei droni civili professionali (cd. droni enterprise). L’indagine riguarda, in particolare, possibili pratiche di resale price maintenance (RPM), ossia di limitazione della libertà dei distributori di fissare autonomamente i propri prezzi di rivendita.
In via preliminare, l’Autorità ha ricostruito l’organizzazione della rete distributiva dei droni enterprise a marchio DJI in Italia: la distribuzione all’ingrosso è affidata a Nital e ai rivenditori autorizzati indicati sul sito ufficiale di DJI; la vendita al dettaglio, invece, avviene tramite il sito web di Nital “Hobbyhobby” e i suoi canali fisici, attraverso lo store online di DJI Europe, nonché tramite rivenditori ufficiali e indipendenti.
L'istruttoria scaturisce dalla segnalazione pervenuta all'Autorità da parte di un rivenditore indipendente avente ad oggetto un sistema di RPM per la rivendita di droni enterprise a marchio DJI articolato: i) in una pervasiva attività di monitoraggio dei prezzi applicati dai rivenditori per verificare eventuali scostamenti rispetto ai prezzi praticati su Hobbyhobby. Il sito, infatti, fungerebbe da vero e proprio "prezziario", come sarebbe confermato dal fatto che molti modelli di droni che compaiono sul sito non sono realmente disponibili all'acquisto, sebbene se ne possa visionare il prezzo; ii) nell'adozione di misure ritorsive, quali la minaccia o l’effettiva interruzione delle forniture, nei confronti dei rivenditori che non si allineano ai prezzi indicati sul sito.
Dall'analisi dell'Autorità risulterebbe, inoltre, che per preservare il sistema di RPM applicato in Italia, DJI Europe e Nital avrebbero ostacolato le importazioni parallele, impedendo ai rivenditori di approvvigionarsi all’estero e, quindi, di praticare sconti facendo leva su prezzi più bassi applicati loro da grossisti e rivenditori stranieri.
Secondo l’AGCM, le condotte descritte appaiono idonee, prima facie, a configurare un'intesa verticale restrittiva della concorrenza.
Infatti, sebbene sia consentito al fornitore di indicare prezzi massimi o raccomandati, queste indicazioni non devono tradursi, di fatto, nell'imposizione di prezzi fissi o minimi. Sono, pertanto, vietati non solo i prezzi imposti, ma anche quelli apparentemente massimi o raccomandati che, in ragione delle pressioni esercitate, producano effetti equivalenti a un vincolo di prezzo.
Inoltre, poiché le condotte in esame avrebbero per oggetto la limitazione per i rivenditori di determinare liberamente i propri prezzi di vendita online, tali condotte si qualificherebbero come una restrizione fondamentale della concorrenza, rendendo quindi inapplicabile l'esenzione prevista dal Regolamento (UE) n. 720/2022 (VBER).
Il provvedimento in commento risulta indicativo di un rinnovato interesse da parte dell'AGCM nel contrasto delle restrizioni verticali della concorrenza, nel solco di precedenti azioni volte a reprimere pratiche di imposizione dei prezzi di rivendita, come il caso Sofar – concluso con impegni – che rappresenta un ulteriore esempio dell’attenzione dell’Autorità verso fenomeni riconducibili alla RPM.
Vendita abbinata di mutui e polizze: la valutazione del Consiglio di Stato sulla natura aggressiva della pratica
Con sentenza del 7 novembre 2025, il Consiglio di Stato ha confermato l'annullamento del provvedimento con cui l'AGCM nel 2020 aveva sanzionato una banca per aver abbinato alla vendita di mutui e surroghe quella di polizze assicurative, ritenendo che la condotta costituisse una pratica commerciale aggressiva.
In particolare, l'Autorità aveva ritenuto che la banca avesse indebitamente condizionato i consumatori ad acquistare presso la stessa polizze incendio/scoppio (IS) – la cui stipula era richiesta dalla banca quale condizione necessaria per l'erogazione del finanziamento e della surroga – e polizze Credit Protection Insurance (CPI) (facoltative), in abbinamento ai finanziamenti.
La banca ha impugnato il provvedimento dell'AGCM davanti al TAR Lazio che, accogliendo il ricorso, ha annullato il provvedimento (ne abbiamo parlato nella nostra newsletter di gennaio 2024). L’AGCM ha quindi proposto appello al Consiglio di Stato, che con la sentenza in commento ha confermato l'annullamento disposto dal TAR, fornendo indicazioni utili sugli elementi da valutare per qualificare una pratica commerciale come aggressiva.
Preliminarmente, il Consiglio di Stato, ribadendo il rapporto di complementarità tra disciplina a tutela del consumatore e regolazione di settore, ha chiarito che la conformità della condotta alla regolazione di settore può costituire un indizio utile, ma non univoco o autonomamente determinante, per valutare se la condotta sia compatibile con la disciplina consumeristica. Di conseguenza, non si può presume che le pratiche conformi alla regolazione di settore siano automaticamente lecite sotto il profilo della tutela del consumatore.
Il Consiglio di Stato ha anche ribadito che, per qualificare una pratica commerciale aggressiva è necessario un quid pluris, da individuarsi in una concreta capacità di coartare il comportamento – e quindi la libertà di scelta – del consumatore. Tale quid pluris deve emergere da una valutazione complessiva e non parcellizzata degli elementi di prova/indizi, i quali devono essere connaturati da gravità, precisione e concordanza.
In particolare, nel caso di specie il Consiglio di Stato ha ritenuto che:
- le percentuali di abbinamento tra i prodotti non potessero ritenersi indizi gravi di illiceità della pratica, considerato che si attestavano – per le polizze CPI – tra il 28% e il 34%, ben sotto la soglia di anomalia individuata dalle Autorità di settore, pari all'80%; più elevate (65-70%), ma comunque non decisive, quelle tra mutuo/surroga e polizza IS, dato ritenuto fisiologico considerata la natura obbligatoria di tali polizze. Inoltre, il Consiglio di Stato ha valorizzato l'esistenza del collegamento funzionale esistente tra le operazioni di finanziamento e l'acquisto delle polizze assicurative che renderebbe plausibile la scelta del cliente, dettata da ragioni di praticità, di concentrare i rapporti presso un unico intermediario;
- analogamente, il sistema di incentivi per i dipendenti non potesse considerarsi un indizio grave poiché: l’inserimento dei dati di vendita tra i criteri di valutazione della performance risulta prassi aziendale diffusa e, nel caso di specie, era in grado di incidere solo limitatamente (25%) sulla valutazione dei dipendenti e non era applicata a tutte le posizioni;
- il sistema di monitoraggio interno predisposto dalla Banca sull'andamento dei tassi di abbinamento non potesse ritenersi significativo, poiché prescritto dalla regolazione di settore;
- il dato dei reclami relativi alla vendita delle polizze fosse trascurabile: solo 20 su 53.000 polizze, di cui solo la metà pertinenti;
- le modalità di commercializzazione adottate dalla Banca nell'offerta dei prodotti abbinati non presentassero elementi di vera coartazione del consumatore, atteso che nel preventivo venivano proposte al cliente alternative comparabili e quest'ultimo era messo in condizione di scegliere la soluzione preferita;
- l'asserita concessione di condizioni più favorevoli sul mutuo per chi acquistava la polizza CPI non sarebbe stata dimostrata dall'Autorità. Sul punto, il Collegio ha evidenziato che i tassi risultavano pressoché identici (1,56% con CPI a fronte di un tasso pari a 1,57% senza), e talvolta persino più alti con CPI, escludendo sconti sistematici;
- non fossero di interpretazione univoca gli elementi probatori (in particolare e-mail interne alla Banca) addotti dall'AGCM per dimostrare l'applicazione di politiche discriminatorie nella gestione delle richieste di finanziamento presentate da clienti che non avevano stipulato le polizze facoltative.